Filosofia della mente,  Filosofia della scienza,  Fisica,  Frontiere della scienza,  Matematica,  Meccanica quantistica,  Misticismo

Il grande catalogo delle interpretazioni della meccanica quantistica: la migliore teoria umana della realtà e le sue molte filosofie

(brogliaccio del video: www.youtube.com/watch?v=-SqnYisFWJY&list=PL6l3loFVFyZ1QG_jPFERyTFGzzGnvVtI6)

Parte prima – piccola introduzione alla teoria

Premessa

Ciao! Oggi parliamo di… meccanica quantistica! In particolare, ci concentreremo su uno degli aspetti più singolari, anzi direi più unici che rari tra le scienze, della teoria dei quanti: le sue molte, moltissime interpretazioni.

Dato che durante la scrittura di questo video mi continuavano a venire in mente cose che avrei voluto aggiungere, articolare meglio e così via, e dato che alcuni amici mi criticano per i miei video “lunghissimi e difficili”, ho deciso di dividere l’argomento in due video, che comunque sto registrando l’uno dopo l’altro. È una cosa fatta per pura comodità e per venire incontro alle anime più pavide, ma spero che non spezzi il “pathos” della narrazione!

E dunque, in questo primo video esploreremo insieme il contesto concettuale, e gli aspetti della teoria che ci serviranno poi nella seconda parte, il secondo video, nel quale affronteremo davvero alcune delle più importanti interpretazioni della meccanica quantistica. I due video saranno pubblicati contemporaneamente, quindi i meno timidi potranno continuare direttamente la visione sul secondo. Vediamo come viene. Nel caso non mi piaccia il risultato sarà l’ultima volta che darò retta a quelli che mi accusano di video troppo lunghi! Mi farà piacere anche sapere cosa ne pensate, nei commenti. Ma bando alle ciance: partiam!

La meccanica quantistica è la teoria più magnifica e potente mai formulata dal genere umano per descrivere il mondo fisico, in costante competizione per questo primato, da più di un secolo, con la relatività generale.

La MQ, come ogni tanto la chiamerò confidenzialmente per fare meno fatica, ha rivoluzionato la nostra comprensione della natura, portando con sé scoperte che nessuno era stato in grado neanche lontanamente di immaginare prima, e poi applicazioni che hanno cambiato così profondamente la vita umana da averla resa irriconoscibile a chiunque non sia nato poco prima o meglio dopo l’avvento di questa nuovissima scienza e delle tecnologie a lei connesse.

Ma, appunto a più di un secolo dalla sua nascita, permane un dubbio sconcertante: che cosa descrive del mondo, questa teoria? Infatti, nonostante il suo straordinario successo predittivo ed empirico, la MQ lascia un enorme spazio a molte interpretazioni diverse, spesso del tutto incompatibili tra loro e talvolta davvero fantasiose. Oggi vi ho apparecchiato proprio questo: un grande catalogo delle interpretazioni della meccanica quantistica, per cercare di capire non solo cosa ci dice, ma anche cosa può voler dire. Sarà una lunga cavalcata ed è quindi l’ora di iniziare.

E intanto che voi mettete like, vi iscrivete e condividete con gli amici ecco la… SIGLA!!!

Parte 1. Introduzione alla MQ e un po’ di storia

L’idea di questo video mi frullava in testa da moltissimo tempo, ma dopo la lettura dell’ambizioso articolo su un argomento debolmente correlato, scritto da un divulgatore ben più importante di me, Robert Lawrence Kuhn, nessuna relazione, noto per il suo show tra TV e Youtube “Closer to Truth” ho rotto ogni indugio.

Trovo buffo, tra l’altro, come i temi che interessano a Kuhn siano così spesso gli stessi che interessano a me, nonostante lui parta chiaramente da posizioni molto diverse dalle mie, soprattutto venate da una certa tentazione per il trascendente.

L’articolo di Kuhn, intitolato “A landscape of consciousness: Toward a taxonomy of explanations and implications”, ovvero “Un panorama della coscienza: verso una tassonomia delle spiegazioni e delle implicazioni”, tenta di costruire una mappa dell’enorme numero di diverse teorie della coscienza di cui si discute oggi nelle scienze cognitive.

Questa idea, l’idea di catalogare molte teorie su qualcosa di cui nessuno sa niente, mi è sembrata divertente e subito ho pensato a come impostare un simile catalogo per qualcosa di quasi, QUASI, altrettanto fumoso ed evanescente: le molte interpretazioni della Meccanica Quantistica.

Certo, la MQ non è in grado di rivaleggiare con la Coscienza, in termini di moltiplicazioni teoriche, non in termini numerici, almeno, ma il fenomeno è simile: non capiamo qualcosa, dunque cerchiamo di costruire una teoria su di essa e ci accapigliamo e discutiamo.

Nella storia della scienza e della filosofia è successo infinite volte e credo fermamente che sia qualcosa di fisiologico, nello sviluppo della nostra conoscenza del mondo, a dispetto di quello che alcuni filosofi della scienza possono argomentare. Comunque, mentre continuo a meditare su un prossimo video sulle teorie della coscienza, a partire dall’articolo di Kuhn, intanto iniziamo a parlare di quanti.

Ah! Tanto per sgombrare il campo da ogni malinteso: il parallelismo tra teorie della coscienza e interpretazioni della MQ è debole e un po’ improprio, dato che le prime sono teorie su qualcosa di cui nessuno sa niente, mentre le secondo sono il sintomo di bisogno di contesto per noi poveri umani, di fronte alla magnificenza psichedelica della natura. Giusto per inciso e per chiarezza.

La meccanica quantistica ha molti padri e qualche madre e anche una storia lunga e complicata, non priva di risvolti un po’ drammatici ma non troppo, con dibattiti, ripensamenti e veri antagonismi tra le menti più brillanti del XX secolo. È una storia infatti che ha coinvolto tutti i più famosi fisici e pensatori del ‘900.

Tutto inizia, appunto, nell’anno 1900, quando Max Planck introduce l’ipotesi dei quanti per spiegare un problema che affliggeva la fisica classica: lo spettro di emissione del corpo nero.

Un corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica che lo colpisce. Le equazione classiche di Maxwell qui predicevano, in contrasto con l’evidenza e con la legge di conservazione dell’energia e col fatto che esiste ancora l’universo, che al diminuire della lunghezza d’onda della radiazione che colpisce il corpo nero, la radiazione del corpo avrebbe dovuto andare all’infinito, verso quella che fu battezzata “Catastrofe ultravioletta”. E davvero, se fosse stata corretta la previsione della fisica classica, l’universo sarebbe andato verso la catastrofe, anche se non è questo il senso del nome.

Plank allora ipotizzò che l’energia elettromagnetica non sia emessa in modo continuo, ma in pacchetti discreti, i “quanti”.

Questa ipotesi, per lui inizialmente solo un escamotage matematico per risolvere il problema della catastrofe ultravioletta, si rivelerà invece il primo passo sulla via di una rottura con la fisica classica e con la sua concezione del mondo. Anche questa un po’ una catastrofe, appunto.

Plank, col suo lavoro, segna la nascita del concetto di quantizzazione e ricava una delle più importanti costanti fisiche conosciute h, la costante di Plank, [schermata con il valore di h] che già da sola è in grado di dirci molte cose sulla natura intima del mondo.

E, nel 1905, come in ogni buona storia di fisica, arriva Einstein! E come ti sbagli?!

Scusate, lo so che ho già fatto questa battuta innumerevoli volte, ma mi diverte e poi è incredibilmente vera, che ci posso fare?!

Insomma Einstein riprende l’idea dei quanti e la applica all’effetto fotoelettrico, ipotizzando che la luce, la radiazione elettromagnetica, sia ancora una volta composta da quanti di energia, quelli che poi diverranno noti col nome di “fotoni”.

Sarà poi per questo suo contributo, già accertato e acclamato, non per l’ancor sospetta relatività, che il nostro scapigliato germanico vincerà il suo Premio Nobel nel 1921. Ah, mi torna in mente un aneddoto di cui ho letto da bambino in un libro a fumetti sulla relatività, ora ho ricontrollato ed è proprio un fatto vero!

Sapevate che la prima moglie di Einstein era così fiduciosa nel futuro del suo presto ex sposo che tra le condizioni del loro divorzio pretese, in anticipo di almeno 3 o 4 anni sull’effettiva attribuzione della grossa medaglia ad Albert, che il denaro del premio andasse, insieme ai figli, a lei? Mileva Marić era, lo dicono in tanti, anche lei una mente geniale! Ma divago.

Torniamo ai quanti e all’inizio della loro folgorante carriera.

La cosa prende sempre più piede: Niels Bohr introduce un modello atomico quantizzato per spiegare gli spettri dell’idrogeno, Arnold Sommerfeld lo estende introducendo i numeri quantici secondari e l’ellitticità delle orbite. Insomma, l’idea di Plank si è radicata ed espansa, sicuramente oltre le intenzioni del suo autore, ma ancora non ha tirato fuori tutto il suo potenziale eversivo.

Parte 2. La storia diventa teoria matematica

Adesso però, pur rimanendo inevitabilmente in una prospettiva anche storica e sempre molto semplificata, andiamo un po’ più vicino alla realtà di questo strano mondo, il che vuol dire dare un’occhiata un pochino, giusto un pochino, più ravvicinata a questa rappresentazione matematica del mondo.

Però prima mi è venuto in mente che sarà opportuno inserire un mini glossario, per chiarire alcuni termini che si usano anche nel linguaggio comune, ma che in questo contesto sono particolarmente importanti, che torneranno spesso e che sono centrali per capire le questioni che ci porremo da adesso in poi. Ed ecco qualche definizione super semplificata:

Locale: un fenomeno è locale se tutto ciò che può influenzarlo si trova nel suo intorno immediato. In fisica classica, nessuna informazione può viaggiare più veloce della luce. Una teoria non locale, come la MQ sembra essere, nel modo più ostinato, ammette invece influenze a distanza senza un tramite intermedio.

Deterministico: una teoria è deterministica se, dati gli stati iniziali e le leggi fisiche, il futuro è completamente prevedibile. La MQ, almeno nella sua interpretazione ortodossa, rompe questa aspettativa, che comunque anche nella fisica classica era già stata messa in crisi dai fenomeni non lineari e caotici.

Reale: un’entità è considerata reale (ontica) se esiste indipendentemente dal fatto che venga osservata. Se invece è solo uno strumento per organizzare la nostra conoscenza (epistemica), allora la sua realtà è solo “effettiva”, non “ontologica”. Come diceva Philip Dick: la realtà è quella cosa che quando smetti di crederci va avanti benissimo lo stesso.

Dopo questo chiarimento che solleva più domande di quante ne risolve, torniamo alla nostro storia.

Nel luglio 1925 Werner Heisenberg introduce la sua “meccanica matriciale”, con la celebre pubblicazione  intitolata “Über quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen”, che vuol dire “Sulla reinterpretazione quantistica dei rapporti cinematici e meccanici”.

Si tratta di un formalismo matematico radicalmente nuovo che si concentra esclusivamente su grandezze osservabili, come le frequenze e le intensità della luce emessa dagli atomi. Anziché cercare di descrivere le traiettorie delle particelle, come faceva la meccanica classica, Heisenberg costruisce una teoria fondata su matrici, ossia tabelle di numeri complessi che rappresentano le transizioni tra stati quantistici.

In questo formalismo, le grandezze fisiche non sono più numeri o semplici vettori monoriga, ma matrici, e la loro moltiplicazione non è commutativa, il che rappresenta qualcosa della realtà fisica: una proprietà che riflette la struttura non commutativa del mondo quantistico.

Cioè, per dirla facile, nel mondo dei quanti conta, conta moltissimo, l’ordine in cui si fanno le cose.

Questa innovazione porta all’idea, assurda da una prospettiva classica, che non è possibile conoscere con precisione simultanea alcune coppie di grandezze osservabili, dette coniugate, come per esempio la posizione e la velocità di una particella. [Newton che si gratta la testa perplesso di fronte a due matrici che si moltiplicano.]

Nella pubblicazione del ’25 Heisenberg scrive: “Alle grandezze p e q corrispondono quindi matrici che non commutano. L’indeterminatezza nel prodotto pq − qp è proporzionale a h. Ciò conduce all’affermazione generale che p e q non possono essere determinate simultaneamente con precisione arbitraria”.

Il che può essere parafrasato dicendo che quanto più precisamente è determinata la posizione, per esempio, tanto meno precisamente è determinabile la quantità di moto, e viceversa, a seconda di cosa misuro per prima.

In quel ragionamento formale Heisenberg espone per la prima volta quello che successivamente, nei suoi scritti divulgativi, lui stesso battezzerà, “principio di indeterminazione”. Una delle migliori trovate di marketing scientifico di tutti i tempi!

La formulazione preliminare di Heisenberg sarà pochissimo dopo raffinata e dimostrata matematicamente da Earl Hesse Kennard, con la diseguaglianza Δx · Δp ≥ ℏ / 2, dove Δx è l’incertezza nella posizione, Δp l’incertezza nella quantità di moto, e ℏ è la costante di Planck ridotta, cioè magnificamente divisa per 2pigreco.

Già! La costante di Plank ridotta… ℏ ha intanto il ruolo di stabilire la scala alla quale gli effetti quantistici diventano rilevanti: quanto più grande è il valore di una grandezza macroscopica rispetto ad ℏ , tanto più marcata è la differenza tra comportamento classico e quantistico. ℏ definisce in questo senso ciò che è definita la scala di Planck, l’ordine più piccolo possibile nell’universo per tutte le quantità fisiche. Un po’ inaspettatamente questa costante ci dà, insieme all’altra costante fuori di testa dell’univero c, la velocità della luce nel vuoto o, meglio, la velocità nel vuoto di qualcosa di non dotato di massa, anche il limite superiore dell’energia possibile, la cosiddetta energia di Plank. Ma questo è per un’altra volta.

Dunque perché dividere h per 2π? La ragione è legata al fatto che molte grandezze nella meccanica quantistica, come le funzioni d’onda, hanno una natura ciclica, ondulatoria, e si esprimono naturalmente in termini angolari (pensiamo a onde, fasi, rotazioni nello spazio degli stati). Il 2π rappresenta proprio una rotazione completa, ed è quindi del tutto naturale che nelle formulazioni più eleganti della teoria si preferisca usare una costante che tenga conto di questa periodicità intrinseca. È insomma tutta trigonometria!

ℏ appare, come dicevamo, nell’equazione di Schrödinger e nel principio di indeterminazione, nella quantizzazione del momento angolare, nel commutatore tra osservabili e in mille altri luoghi della teoria quantistica. È come una chiave di volta che tiene insieme l’intera architettura concettuale e matematica della MQ. Senza ℏ, il mondo sarebbe classico. Con ℏ, il mondo diventa quantistico.

Ecco, più vado avanti e più mi rendo conto che ci vorrebbe ben più di un intero video, per parlare di tutte le cose che mi vengono in mente parlandone. L’ubiquità della costante di Plank e il suo ruolo nella nostra attuale visione della realtà microscopica è davvero affascinante. Però, però mi devo trattenere sennò mi faccio portare fuori strada, dato che siamo qui da un po’ e non ho ancora iniziato a parlare dell’argomento principale del video. Ah, già! Mi ricordo adesso che ho deciso di parlare delle interpretazioni nel video a seguire! Bene, sono più rilassato. Ma comunque muoviamoci! E con voi mi raccomando! Guardate fino in fondo e non resterete delusi: sarà un viaggio nella magnifica assurdità della realtà fisica, l’assurda bellezza e poesia dell’universo stesso. In questo c’è tutta la poeticità di cui un essere sensibile potrà mai avere bisogno, a dispetto di quelli che pensano che ci vogliano fate, dei e spiritelli per giustificare la leggiadria e la poesia che permea il mondo!

A questo punto e dopo tutte le mie giravolte è bene ribadire una cosa: il principio di indeterminazione, nonostante tutti i tentativi teorici e sperimentali fatti da allora per smentire la cosa, non deriva da una limitazione strumentale o tecnologica, ma è una proprietà fondamentale del mondo quantistico.

A tal proposito, mi piace ricordare, anche se non frega a nessuno che quando ero bimbo, beh, questa volta adolescente diciamo, ed entrai per la prima volta in contatto con questa idea, la cosa mi sembrò scontata: in definitiva per sapere dove è un elettrone lo devo pur colpire con qualcosa, tipo con un fotone, pensavo, e quindi misurando la sua velocità causo un suo spostamento. Sembrava troppo semplice per essere così controverso. Di qualcosa di simile parla anche Nick Herbert nel suo Quantum Reality e racconta come lui avesse chiamato un simile modo di vedere la cosa “disturbance model” cioè, più o meno, “modello di disturbo” e dice che anche il giovane Heisenberg un tempo aveva sostenuto un punto di vista simile sul mondo quantistico. E ci dice che forse avrebbe dovuto chiedersi, io me lo chiesi quasi subito, non per vantarmi, avrebbe dovuto chiedersi, dicevo, come mai Heinseberg avesse abbandonato un simile punto di vista “realista” quasi subito. E andando avanti racconta ancora che rimase della sua idea finché, improvvisamente apparve il Teorema di Bell, che dimostrò che le cose non erano affatto così semplici, ma sicuramente erano molto più divertenti! Ma vado troppo avanti: del teorema di Bell parleremo, ahimè comunque assai brevemente, tra un po’, nella parte terza del video.

La meccanica matriciale segna infatti, un punto definitivo di rottura con la fisica classica e inaugura una nuova visione della realtà, nella quale ciò che possiamo conoscere è intrinsecamente limitato dalle regole stesse della natura, da come il mondo è costruito. E, probabilmente lo sapete, nello stesso scorcio d’anni anche dal lato della certezza matematica arriva un forte scossone: Gödel e compagnia, sapete. Ne parliamo un’altra volta però, scusate.

Davvero poco dopo la pubblicazione di Heisenberg, nel gennaio del 1926, con la pubblicazione del primo di una serie di quattro articoli sulla rivista Annalen der Physik, intitolato “Quantisierung als Eigenwertproblem” ovvero “Quantizzazione come problema di autovalori”, Erwin Schrödinger propone un’alternativa alla meccanica matriciale: la meccanica ondulatoria. Un approccio che descrive il comportamento dei sistemi quantistici  in termini di onde.

Contrariamente alla meccanica matriciale, che era puramente algebrica e priva di immagini fisicamente intuitive, di fatti riconducibili direttamente alla fisica, la meccanica ondulatoria sembra fornire una interpretazione più fenomenologica: la particella, come per esempio un elettrone, non è più vista come un oggetto puntiforme che segue una traiettoria, ma come un’onda diffusa nello spazio, caratterizzata da una funzione matematica detta funzione d’onda. O almeno così immagina il suo autore.

L’equazione di Schrödinger, è un’equazione differenziale che determina come evolve nel tempo questa funzione d’onda. Nella sua forma più semplice, per una particella in una dimensione, l’equazione è:

iℏ∂ψ/∂t = Ĥψ,

dove  (il solito h tagliato, di cui abbiamo già parlato) è la costante di Planck ridotta, i è l’unità immaginaria (cioè radice quadrata di -1) e Ĥ è l’operatore hamiltoniano che, detta in modo semplice, rappresenta l’energia totale del sistema, la somma della sue energie cinetica e potenziale e, infine ψ (psi), in questo caso la derivata di psi nel tempo, che è il centro del discorso che andremo a fare: la funzione d’onda.

Questa visione ondulatoria affascina molti per la sua analogia con i fenomeni elettromagnetici classici, ma introduce anche nuove difficoltà interpretative. Che cos’è la funzione d’onda? È un oggetto reale, un’onda fisica, oppure un semplice strumento matematico? La risposta a questa domanda divide i fisici ancora oggi e ci porta un passo più vicino alla questione delle interpretazioni della meccanica quantistica. Nonostante Schrödinger tenti di mantenere l’interpretazione della sua equazione su un piano deterministico, come vedremo, il tentativo è infruttuoso.

Questa equazione rappresenta una rivoluzione non solo nella fisica ma anche nella visione umana di ciò che è reale: non fornisce traiettorie deterministiche, ma evoluzioni probabilistiche. Infatti Max Born, anche lui poco dopo, interpreta la funzione d’onda come una misura di probabilità, non più come un’onda in qualche modo materiale, dandole un significato statistico all’ampiezza d’onda. Born formula la cosa con il quadrato del modulo della funzione d’onda, |ψ(x,t)|², con rispetto parlando, rappresenta infatti la densità di probabilità di trovare la particella in una certa posizione x al tempo t.

Occhio, ora arriva un breve momento matematico. Se vi fa paura saltate qui: [link per saltare il momento matematico]. No? Allora procediamo.

A me quello che fa morire di questa equazione è la presenza di i, l’unità immaginaria. L’unità immaginaria non si trovava a passar di qui per caso, ma è lì per una ragione profonda, che ha a che fare con la natura ondulatoria e complessa della funzione d’onda.

In particolare, i consente all’equazione di descrivere oscillazioni nel tempo, esattamente come avviene per le onde classiche e per una ragione ancora più costitutiva della presenza di pigreco: contrariamente alle onde classiche la funzione d’onda vive nello spazio dei numeri complessi. L’evoluzione temporale degli stati quantistici avviene infatti per mezzo di una rotazione nello spazio di Hilbert, e tale rotazione richiede l’uso di esponenziali complessi. È proprio i che consente l’uso della funzione esponenziale complessa e^(iθ), cuore d’oro della dinamica quantistica. In termini fisici, questo significa che la probabilità complessiva si conserva nel tempo, come richiesto dall’unitarietà dell’evoluzione. Senza l’unità immaginaria, l’equazione di Schrödinger non descriverebbe un’evoluzione coerente e reversibile, ma qualcosa di dissipativo, come una perdita o un decadimento. In altre parole: senza i, la meccanica quantistica perderebbe la sua eleganza, la sua coerenza interna e — in definitiva — la sua corrispondenza con la realtà. Niente male come carriera, per un numerino che fu chiamato “immaginario” da Cartesio, a testimonianza della sua poca stima verso questa strana e sorprendente idea. Un altro artificio matematico che si è fatto strada a forza nella realtà fisica.

Ma parliamo adesso un attimo del rapporto tra meccanica matriciale e ondulatoria. Poco dopo gli articoli di Heisenber e Schroedinger, Paul Dirac unifica i due approcci e introduce la notazione bra-ket, che magari vi è capitato di vedere da qualche parte.

In questo linguaggio, uno stato quantistico è rappresentato da un ket, per esempio |ψ⟩, mentre il suo duale, cioè una funzione lineare che agisce su altri stati, è rappresentato da un bra, ⟨ψ|. Il prodotto interno tra due stati, che ci dice quanto sono “simili” o “sovrapposti”, si scrive così: ⟨ϕ|ψ⟩. Qui con ϕ (phi) è un altro stato quantistico, generalmente distinto da ψ. Nel contesto del prodotto scalare ⟨ϕ|ψ⟩, rappresenta uno stato di confronto rispetto al quale si misura la “sovrapposizione” o l’affinità con lo stato ψ. Se ⟨ϕ|ψ⟩ = 0 (se il prodotto scalare tra phi e psi è uguale a zero), i due stati sono ortogonali, cioè completamente distinguibili. Ma questo è un altro discorso.

Per tornare all’unificazione di Dirac egli dimostra che tanto la meccanica matriciale, quella di Heisenberg, quanto la meccanica ondulatoria, quella di Schrödinger,  non sono altro che due strade alternative per descrivere lo stesso comportamento probabilistico della natura.

Sebbene infatti la prima si fondi sull’algebra delle matrici – cioè tabelle di numeri complessi che descrivono transizioni tra stati quantistici – , e la seconda su equazioni differenziali che descrivono come evolve un’onda nello spazio e nel tempo, entrambe si riferiscono a uno stesso oggetto matematico più profondo: lo spazio di Hilbert di cui ho accennato sopra e anche nel mio video sui tensori [link al video sui tensori].

Parliamone un attimo. Lo spazio di Hilbert, per gli amici H, è un tipo di spazio vettoriale astratto, completo, cioè privo di buchi, cioè data una certa operazione tra due vettori, otterremo sempre come risultato un vettore nello spazio H. Tale spazio è anche dotato di prodotto scalare cioè tra numeri, cosa che permette di rappresentare in modo unitario stati quantistici, operatori osservabili, evoluzioni temporali. In questo spazio, gli stati quantici sono rappresentati da vettori (come le funzioni d’onda), e le grandezze osservabili da operatori lineari (come le matrici della meccanica matriciale).

L’equazione di Schrödinger, in questa visione unificata, descrive come evolve un vettore nello spazio di Hilbert sotto l’azione dell’operatore hamiltoniano di cui abbiamo parlato prima. Allo stesso modo, la moltiplicazione non commutativa delle matrici in Heisenberg riflette il fatto che gli operatori nello spazio di Hilbert non sono commutativi: l’ordine con cui si applicano importa, e ciò ha conseguenze fisiche enormi e sorprendenti, come, appunto, l’ho già detto, il principio di indeterminazione.

In breve, l’uso o la scoperta, come pare a voi, dello spazio di Hilbert come struttura matematica comune ha permesso di fondere meccanica ondulatoria e matriciale in un unico formalismo coerente, che è quello su cui oggi si basa l’intera teoria quantistica moderna.

Insomma, con il contributo di quelli citati e di molti altri fisici, in quegli anni, la teoria assume una forma completa. Ed è proprio da questo momento che iniziano anche le grandi domande interpretative che  accompagneranno la MQ fino ad oggi.

Ma perché una teoria fisica tanto potente ha bisogno di essere interpretata? In fondo, la gravità newtoniana o la relatività einsteiniana non sembrano richiedere interpretazioni: esse forniscono una descrizione coerente e condivisa del mondo, basata su dei concetti di ordine fisico e finita lì. No?

La meccanica quantistica, invece, non ci dice cosa accade, ma ci fornisce solo la probabilità di osservare un certo evento. Ci chiede forse addirittura di abbandonare l’idea di un mondo oggettivo che esiste indipendentemente da noi? Qualcuno lo pensa. Altri pensano semplicemente che il mondo, a quel livello sia così diverso da ogni nostra possibile intuizione, visualizzazione, che l’unico modo è abbandonarci sereni alla matematica, unico sguardo possibile in quelle profondità. E comunque questo scenario ci spalanca un enorme caravanserraglio di possibilità filosofiche, ontologiche, epistemologiche, metafisiche e mille altri tipi di fantastici trip lisergici.

Niels Bohr scrisse: “È sbagliato pensare che lo scopo della fisica sia di scoprire com’è la natura. La fisica riguarda ciò che possiamo dire sulla natura”. Un programma breve ma anche vasto, un po’ deludente per alcuni. In questa sua frase si condensa tutta la sfida posta dalla teoria. Questa è anche un’affermazione che evidenzia il ruolo centrale del linguaggio nel dibattito epistemologico: Bohr, in piena sintonia con alcuni aspetti del pensiero di Wittgenstein, ritiene che non possiamo accedere direttamente alla realtà ultima, ma solo costruire linguaggi e descrizioni condivise per parlare della nostra esperienza. In questo senso, il problema non è solo cosa è la realtà, ma cosa possiamo dire su di essa — un tema che percorre tutto il dibattito sulle interpretazioni della MQ.

Insomma, la MQ è solo uno strumento per fare previsioni, o ci dice qualcosa di vero sulla realtà? Oppure la descrizione del mondo fornita dalla meccanica quantistica è forse incompleta? Saranno molti a non essere d’accordo con il grande fisico danese, come vedremo.

Fin da subito infatti, i grandi padri della meccanica quantistica iniziano un lungo, anche se QUASI sempre cordiale, bisticcio tra loro.

Planck, pur essendo colui che ha introdotto l’idea della quantizzazione, rifiuta il suo pargolo e non accetterà mai pienamente l’idea che i quanti abbiano una loro realtà fisica. Per lui, l’ipotesi quantistica era inizialmente solo un artificio matematico, proprio come i per i matematici del ‘600, semplicemente utile per risolvere il problema della radiazione del corpo nero. In sostanza, contribuì in modo decisivo alla nascita della meccanica quantistica, ma non ne condivise mai fino in fondo lo spirito rivoluzionario. Mai pensare che un artificio matematico rimanga pacificamente tale, se funziona, lo dovremmo aver imparato.

Einstein, a proposito di artifici matematici ribelli, dopo aver contribuito alla quantizzazione della luce, si fece sempre più critico verso la meccanica quantistica “ortodossa”: non accettò mai il carattere probabilistico della teoria. Famoso e abusato il suo detto “Dio non gioca a dadi con l’universo”, rivolto contro l’interpretazione di Copenaghen sostenuta da Niels Bohr, di cui parleremo tra breve… beh, nel prossimo video, diciamo.

I due si confrontarono intensamente nei famosi dibattiti al Congresso Solvay degli anni ’20 e ’30, in cui Bohr difese la completezza della teoria quantistica, mentre Einstein cercava di mostrarne i limiti con i suoi esperimenti mentali. E da qui questa famosissima foto, in cui è riunito un qi complessivo che nessuna IA potrà mai eguagliare. Al centro l’immenso Lorentz, padre delle trasformate di Lorentz, cuore matematico della relatività ristretta e presidente dei Congressi Solvay, per molti anni, poi la Curie, unica del gruppo con due premi nobel, l’evidente Einstein e poi… poi bene Heisenberg con la sua pettinatura che pareva di gesso e tutti gli altri.

Anche Schrödinger, inizialmente affascinato dal suo stesso formalismo ondulatorio, si oppose all’idea del collasso della funzione d’onda e all’interpretazione probabilistica, esprimendo la sua perplessità nel celebre paradosso del gatto.

Da tutto questo nacque un dibattito filosofico profondo e ancora aperto, sul significato ultimo della teoria: la realtà è determinata o indeterminata? Esiste indipendentemente da chi la osserva o ne è modificata? Da allora, il disaccordo tra realisti e antirealisti, tra deterministi e probabilisti, continua a essere una delle tensioni più fertili e irrisolte della fisica.

In questa prospettiva merita un accenno l’atteggiamento degli sperimentali, i fisici sperimentali, voglio dire. Mentre i teorici si fanno la guerra, la fisica sperimentale adotta quello che è tutt’oggi l’approccio dominante, , antagonista di ogni possibile interpretazione, un approccio pratico e pragmatico, come diceva ironicamente ma non troppo David Mermin, “shut up and calculate” “Zitto e calcola!”, la cui paternità indiretta e be’, filosofica, anche se lui magari non l’avrebbe definita così, è data per vari motivi a Richard Feynmann.

Comunque la pensino gli sperimentali o addirittura gli ingegneri, la posta filosofica in gioco è alta: si tratta di decidere cosa intendiamo per realtà. Il filosofo Federico Laudisa, autore di “Filosofia della meccanica quantistica”, sottolinea come il successo empirico della teoria conviva con una pluralità disarmante di interpretazioni, e questo perché la meccanica quantistica tocca il cuore stesso della vecchia terribile metafisica: che cos’è la realtà?

Parte 3: alcuni esperimenti che dovevano confutare la meccanica quantistica e non l’hanno fatto: oltre il principio di indeterminazione.

Prima di addentrarci nelle interpretazioni vere e proprie, vale la pena di fare un’altra pausa tecnica, per un rapido excursus su alcuni fenomeni peculiari della meccanica quantistica, che ne rendono così enigmatico il significato profondo.

Uno dei fenomeni più stupefacenti è certamente l’entanglement quantistico, o intreccio quantistico, un fenomeno per cui due o più particelle possono trovarsi in uno stato tale che la misura di una influenza istantaneamente lo stato dell’altra, anche a distanze astronomiche, in barba al limite di velocità galattico detto c, la velocità della luce. Questo ha portato Einstein, anche un po’ risentito per lo sgarbo alla sua costante preferita, a parlare, in modo garbatamente sprezzante, di “spooky action at a distance”, un’azione spettrale a distanza, incompatibile con il principio di località della relatività e di tutta la fisica classica.

Ne parla in una sua lettera a Born, molto modernamente scritta in inglese al fisico suo compatriota: “I cannot seriously believe in [quantum mechanics] because it cannot be reconciled with the idea that physics should represent a reality in time and space, free from spooky actions at a distance.” ovvero “Non posso credere seriamente nella [meccanica quantistica], perché non può essere conciliata con l’idea che la fisica debba rappresentare una realtà nel tempo e nello spazio, libera da azioni spettrali a distanza.”

Einstein non accettò mai il carattere probabilistico della MQ. La sua obiezione era di natura schiettamente filosofica: per lui, una teoria fisica deve descrivere una realtà oggettiva e indipendente dall’osservatore, e non limitarsi a fornire probabilità di eventi osservabili. Il nostro tedesco preferito trovava inaccettabile che la natura fosse intrinsecamente indeterministica, come suggerisce la MQ, e riteneva che l’apparente casualità fosse solo il segno di una teoria incompleta, che avrebbe dovuto essere integrata da “variabili nascoste” in grado di restituire un quadro deterministico.

Il suo più famoso tentativo di mettere in crisi la visione quantistica è il celebre paradosso EPR, formulato nel 1935 da Einstein, Podolsky e Rosen, che voleva dimostrare che la meccanica quantistica fosse incompleta, suggerendo l’esistenza, appunto, delle variabili nascoste locali.

Purtroppo per loro tre e per fortuna per chi come noi ama l’universo pazzerello così com’è, negli anni ’60, John Bell formulò l’omonimo teorema che avrebbe permesso di testare sperimentalmente l’esistenza o meno di queste ipotetiche variabili nascoste locali. 

“Il teorema di Bell è facile da capire ma difficile da credere. Questo teorema dice che la realtà deve essere NON-locale”, dice ancora Nick Herbert nel suo bellissimo libro. Ed è davvero facile da capire, il teorema di Bell, ma richiede un po’ di matematica e un po’ di contesto e qui non posso permettermi né l’una né l’altro, quindi fidatevi: Bell dimostro matematicamente che, valide le equazioni della MQ, allora l’universo non può in nessun caso essere spiegato da una teoria locale a variabili nascoste.

Gli esperimenti di Aspect negli anni ’80, e numerosi altri esperimenti successivi sempre più raffinati, hanno dato sistematicamente ragione alla meccanica quantistica, violando le disuguaglianze di Bell, dunque mostrando che il paradosso EPR è reale e mostrando, infine, che non è possibile mantenere sia il realismo locale sia la validità delle previsioni quantistiche. Ecco, è un passaggio molto importante e me la sto cavando troppo a buon mercato, me ne rendo conto, ma questo video è già dannatamente lungo e già in due parti. Scusatemi ma andiamo avanti.

Altro fenomeno affascinante è il teletrasporto quantistico, che consiste nel trasferire lo stato quantico di una particella a un’altra distante, sfruttando l’entanglement e la comunicazione classica. È importante notare che non si tratta di trasporto di materia, ma di informazione quantistica e che anche questo fenomeno è stato dimostrato in una moltitudine di esperimenti

Poi c’è il teorema no-cloning: nella meccanica quantistica non è possibile copiare perfettamente uno stato quantico sconosciuto. Questa proprietà è fondamentale e rappresenta un limite radicale rispetto all’informazione classica. Ne ho parlato nel mio recente video “Contro Faggin”, dove il padre del microprocessore usa questo fenomeno a sostegno delle sue tesi metafisico-quantistiche. Andatevelo a vedere: un altro video piuttosto lungo, lo ammetto.

Non posso, in questo breve e assai incompleto elenco di aspetti fisici e sperimentali, non citare il celebre esperimento della doppia fenditura, che anzi qualcuno tra voi si sarà legittimamente aspettato arrivasse prima, essendo il vero, primo e principale banco di prova della natura quantistica della realtà. L’ho rimandato perché ne parlano sempre tutti e un po’ annoia. No, scherzo è incredibile e scioccante: però quando qualcuno lo mette in mezzo in una trattazione divulgativa mi appisolo, quindi l’ho rinviato quanto possibile!

In questo esperimento, l’esperimento della doppia fenditura, una particella — per esempio un elettrone — viene sparata verso una barriera con due fenditure, dietro la quale si trova uno schermo rilevatore. Se non si osserva il sistema, le particelle sembrano interferire con sé stesse, come farebbe un’onda, producendo una figura di interferenza sullo schermo. Ma se si cerca di osservare da quale fenditura passa la particella, l’interferenza scompare: la particella si comporta come un corpuscolo, colpendo lo schermo in modo puntiforme.

Questo risultato dimostra che le particelle non si comportano né sempre come onde né sempre come punti materiali, ma agiscono in un modo intermedio, ambiguo, ibrido e sono sensibili, in qualche modo, alla misurazione del loro stato. Si comportano da quanti, appunto. E così tra l’altro, si comportano tutte le particelle. Sono stati effettuati esperimenti in tempi assai recenti con antimateria e con intere molecole, un modo per esplorare, è stato detto, in qualche modo il confine tra mondo quantistico e mondo macroscopico.

L’ambiguità che i quanti si portano dietro, la loro doppia natura, è stata trattata prima di tutti da Niels Bohr, con la formulazione del principio di complementarità, uno dei concetti più profondi e controversi della MQ. Bohr formulò l’idea che le proprietà ondulatorie e corpuscolari non si escludono a vicenda, ma sono piuttosto aspetti complementari della stessa realtà: possiamo osservarne uno o l’altro, ma mai entrambi contemporaneamente. Il comportamento quantistico, dunque, non è spiegabile nei termini delle categorie classiche stabili, ma rivela un dualismo irriducibile che dipende dal contesto della misura. Il principio di complementarità è la risposta concettuale e pragmatica di Bohr alla domanda: com’è possibile che una particella si comporti sia come onda sia come corpuscolo? La risposta è che non possiamo pensare in termini di “com’è” davvero, ma solo di come si manifesta in condizioni diverse. Questo approccio pragmatico è quello di cui abbiamo già parlato, che Bohr e Heisenberg portarono nel dibattito con la loro interpretazione di Copenaghen.

In altre parole, il comportamento osservato dipende dal tipo di misura che si effettua. Magistralmente rappresentato in un altro libro della mia estrema gioventù, il cantico dei quanti, con la metafora del “pesce quantistico”. [mettere le illustrazioni del cantico in orizzontale e farle scorrere, spiegandole] 

È la questione del dualismo onda-particella, uno dei fenomeni che alcune interpretazioni cercano di rimuovere in tutti i modi dal campo da gioco. È infatti un esperimento semplice ma che sfida il nostro senso comune e che ancora oggi viene considerato uno degli indizi più potenti e definitivi del mistero quantistico e della natura quantistica dell’universo.

Qualcuno ha detto, forse Niels Bohr, anche se non si sa per certo, che chi non resta sconvolto dai risultati dell’esperimento della doppia fenditura, non ha capito di cosa si tratta.

Insomma, non voglio dilungarmi oltre sulla questione degli esperimenti e delle evidenze portate a suffragio della MQ, ma una cosa deve essere assolutamente chiara: dal punto di vista sperimentale, tutte le volte che si è cercato di “fregare” la meccanica quantistica, proponendo scenari alternativi, esperimenti cruciali, paradossi progettati per smascherarla… beh, lei ha vinto. Sempre! E lo ha fatto con un’eleganza che ha il sapore dell’ineluttabilità. Ma questo non significa che le cose siano state chiarite. Anzi, significa che siamo costretti a prenderla sul serio, pur restando in gran parte all’oscuro del suo significato ontologico profondo.

Parte 4: Una classificazione delle interpretazioni

Ancora un poco, mi scuso ancora, di contesto. Per orientarci nel mare magnum delle interpretazioni della MQ, possiamo seguire uno schema utile proposto da Gerd Christian Krizek, che distingue quattro livelli in una teoria fisica.

Il primo è il livello del formalismo matematico, cioè le equazioni e le strutture che costituiscono l’ossatura della teoria.

Il secondo livello riguarda il collegamento tra questo formalismo e le osservazioni sperimentali, cioè il modo in cui la teoria si ancora all’esperienza.

Il terzo livello si riferisce ai concetti utilizzati, come “particella”, “onda”, “misura”, “osservatore”.

Infine, il quarto livello tocca l’ontologia implicita di ciascuna interpretazione, ossia la risposta alla domanda fondamentale: “cosa esiste davvero?”

Questo schema permette di distinguere le interpretazioni non solo sulla base delle loro premesse filosofiche, ma anche dal modo in cui trattano questioni chiave. Eccone un elenco, di queste questioni chiave.

Ad esempio: la funzione d’onda è reale o solo uno strumento di calcolo? Questa sarebbe la diatriba tra la visione ontica (cioè ontologica, reale) vs l’approccio epistemico (cioè conoscitivo, in qualche senso pragmatico)

Poi, il collasso è un processo fisico o una nostra ignoranza?

L’osservatore ha un ruolo costitutivo, cioè ha un ruolo nel funzionamento del meccanismo quantistico o solo pratico? È la diatriba ora un po’ datata tra idealismo e realismo quantistico su cui si centrava proprio il già citato Cantico dei quanti.

Esistono poi variabili nascoste, cioè non osservabili, che influenzano il comportamento quantistico? Sappiamo già che non esistono variabili nascoste “locali”, ma che dire di possibili variabili “non locali”

La natura dei quanti è intrinsecamente duale? Che ne dite, dopo il discorso sull’esperimento della doppia fenditura?

Insomma. L’intreccio tra matematica, esperienza, concetti e ontologia rende la meccanica quantistica incredibilmente fertile, ma anche sfuggente e confondente.

Merita ricordare che, nella letteratura tecnica si usa talvolta una classificazione utile per orientarsi nella selva delle interpretazioni, quella tra visioni psi-ontiche (che considerano la funzione d’onda come entità reale) e psi-epistemiche (che la vedono come espressione di conoscenza o informazione). Questa distinzione, proposta da Harrigan e Spekkens, aiuta a raggruppare le interpretazioni secondo il loro impegno ontologico, ed è oggi largamente adottata nella discussione tra fisici teorici e filosofi. Di Spekkens riparleremo più diffusamente nel secondo video.

Parte 5. Conclusione della prima parte

Ed eccoci in fondo alla prima parte che sarà, immagino, già diventata assai lunga per conto suo. La prima parte, dicevo, della nostra trattazione delle interpretazioni della meccanica quantistica, che si segnala per la quasi assoluta assenza delle interpretazioni della MQ.

Quindi intanto NON vi saluto, ma anzi, dopo aver messo like e commentato questo video, magari anche dopo averlo condiviso sui vostri social vi invito a non andare via e a clickare sul link che dovrebbe apparire da qualche parte qui intorno, per vedervi subito la seconda parte. Se Youtube ci assiste potrebbe anche partire automaticamente, chissà?!

Vi aspetto al di là del prossimo click!

E se invece siete stanchi salvatevi comunque il prossimo video nei “video da guardare” e intanto

Ciao!

Parte seconda – Le interpretazioni

(brogliaccio del video: www.youtube.com/watch?v=nb5WU_Ig9c8&list=PL6l3loFVFyZ1QG_jPFERyTFGzzGnvVtI6)

Ciao, questa è la seconda parte di un video sulle interpretazioni della meccanica quantistica. Qui, da qualche parte vi metto adesso il link alla prima parte, nel caso ve la siate persa e arriviate da qualche altro luogo!

In realtà la prima parte è una generale introduzione alla meccanica quantistica, quindi se ne sapete quanto basta potete anche semplicemente guardare questo e si va a incominciare, risparmiandoci anche, per una volta, la sigla, ma non il solito invito a mettere like, iscrivervi, commentare e condividere, lo sapete, dai!

Parte 5: Interpretazioni classiche e ortodosse

E finalmente, dai! Partiamo!

Partiamo dalla madre di tutte le interpretazioni: l’interpretazione di Copenaghen!

È la più antica e ancora oggi la più condivisa, diffusa e accettata, non solo nei manuali ma anche, e largamente, tra i fisici, secondo alcuni sondaggi pure assai poco scientifici, penso a quello organizzato anni fa da “Mad” Max  Tegmark e di cui ho già parlato nel mio video sulle menti quantistiche, di cui vi lascio il link qui.

Secondo Bohr e Heisenberg, coloro che hanno formulato questa interpretazione, la funzione d’onda non è una descrizione della realtà oggettiva, ma rappresenta solo ciò che possiamo dire su un sistema quantistico alla luce delle nostre conoscenze.

Quando si compie una misura, la funzione d’onda “collassa” a uno degli esiti possibili, ma questo collasso è visto come un aggiornamento dell’informazione in nostro possesso, non come un evento fisico. [ancora immagini del pesce quantistico]

Quella di Copenaghen un’interpretazione fortemente pragmatica, che rifugge dalla metafisica e abbraccia lo strumentalismo: la teoria funziona, e tanto basta. Tuttavia, questa posizione lascia irrisolto il cosiddetto “problema della misura”, che è uno dei punti più spinosi dell’intera teoria.

Detta – lo prometto! – in breve, la meccanica quantistica prevede che i sistemi fisici evolvano nel tempo secondo un’equazione deterministica, l’equazione di Schrödinger appunto, fino al momento in cui si effettua una misura. A quel punto, accade qualcosa di molto particolare: la funzione d’onda collassa, cioè da una sovrapposizione di stati possibili si passa a uno solo, quello effettivamente osservato. Di lì il gatto. E il pesce.

Ma che cosa provoca esattamente questo collasso? È un processo fisico reale, come il crollo di un edificio, oppure è solo un aggiornamento della nostra conoscenza? Perché il mondo sembra comportarsi in modo deterministico quando nessuno guarda, e poi improvvisamente si comporta in modo casuale appena si osserva? E soprattutto: che cos’è una ‘misura’? Deve esserci un essere cosciente coinvolto, o basta un apparecchio? O basta che l’informazione venga irreversibilmente registrata da qualcosa? E che c’entra l’informazione con la fisica? Nessuna di queste domande ha ancora ricevuto una risposta definitiva, e il modo in cui ogni interpretazione le affronta determina gran parte della sua visione del mondo quantistico. Le ambiguità sul ruolo dell’osservatore lasciate aperte dall’interpretazione di Cophenagen hanno anche lasciato spazio ad alcune delle più peregrine delle interp…

Intermezzo

Aspettate un attimo! Ma quante volte dirò la parola “interpretazione” in questa chiacchierata? Quasi tante quante dirò e ho detto “meccanica quantistica”, immagino! Mi ci vorrebbe qualche agile sinonimo ma mi vengono in mente solo cose come “esegesi” ed “ermeneutica”. Che ne dite? Intanto è un buon momento per un commento tattico! Se non sapete cosa scrivere suggerisco “l’interpretazione dell’esegesi dell’ermeneutica quantistica”

Fine intermezzo

Dicevo.

Un’altra interpretazione classica, se così la si può definire, è l’interpretazione degli insiemi (ensemble) statistici, o semplicemente interpretazione statistica. È stata proposta da Einstein in un articolo del ’36 intitolato “Physics and Reality”. In questa prospettiva si assume che la funzione d’onda non descriva il singolo sistema quantistico, ma piuttosto un insieme statistico di sistemi simili e da qui derivi la sua natura probabilistica. Capite l’approccio? Si cerca di giustificare la natura probabilistica della teoria vedendo i sistemi di cui tratta come insiemi statistici analoghi a quelli calssici. Questa idea era in linea con la sua convinzione che la teoria quantistica, nella forma sviluppata da Bohr e Heisenberg, fosse incompleta. Einstein ricercava una descrizione deterministica e locale, cioè come detto, senza fenomeni a distanza privi di intermediazione fisica, della realtà e considerava l’approccio probabilistico solo come un’indicazione di un sapere parziale, in attesa di una teoria più fondamentale. Insomma l’idea cara ad Einstein era quella di riportare la MQ nel rassicurante alveo delle teorie locali “classiche”, diremmo oggi.

Qualcuno potrebbe criticarmi per aver incluso questa teoria ensemble in questo elenco, perché in un certo senso non è una vera “interpretazione della MQ”, non in senso stretto. Si tratta piuttosto di una posizione alternativa e antagonistica su cosa debba essere una teoria fisica (un “ensemble realistico”, non un “sistema singolo”). A me comunque continua a sembrare una vera e propria interpretazione della meccanica quantistica, mi sbaglierò ma sopporterò ogni critica con coraggio!

In questo senso, la teoria quantistica non sarebbe insomma una descrizione fondamentale della realtà, ma una teoria incompleta, in attesa di un completamento realistico e deterministico. Il che potrebbe anche essere, come vedremo, ma è molto dubbio che lo sia nel senso che Einstein avrebbe desiderato.

Parte 6: Interpretazioni realistiche e deterministiche

E veniamo a una classe di… esegesi (?) della MQ che tentano di riportarla sulla perduta strada del determinismo e del realismo locale, sulla falsariga del programma einsteniano ma in modi alternativi.

Una delle interpretazioni più affascinanti e controverse è la teoria di de Broglie-Bohm, di cui molto si parla nel già citato video sulle menti quantistiche, detta prima “Teoria dell’onda pilota” poi meccanica bohmiana.

Nell’ambito delle teorie quantistiche della coscienza questa teoria è sostenuta dalla nostra vecchia conoscenza Pavo Pilkannen (vedi video), che ne vede i fantastici risvolti in quell’ambito.

Nella nostra esegesi bohmiana si assume che esistano davvero, davvero davvero, particelle con posizioni e traiettorie definite, le quali si muovono sotto l’influenza di un’entità ipotetica chiamata “onda pilota”. La funzione d’onda, in questa interpretazione, non è soltanto uno strumento di calcolo delle probabilità, ma un’entità reale che ha il ruolo di ‘guida’ nel determinare il comportamento delle particelle. L’onda pilota, infatti, coincide con la funzione d’onda stessa e agisce su ciascuna particella attraverso un meccanismo definito dal cosiddetto potenziale quantistico. Questo potenziale, derivato dalla funzione d’onda, influenza la traiettoria della particella senza che vi sia reciprocità: la particella non modifica l’onda, ma ne è semplicemente condotta per la cavezza. In questo modo, il mondo quantistico si comporta come un sistema deterministico governato da leggi non locali, in cui la funzione d’onda funge da regista invisibile, tracciando la strada che le particelle devono seguire. La funzione d’onda, quindi, ha un ruolo causale e guida il moto delle particelle attraverso il cosiddetto potenziale quantistico. La teoria è completamente deterministica e realista: non c’è collasso, e l’evoluzione è continua e univoca.

Tuttavia, per spiegare le correlazioni quantistiche, la meccanica bohmiana deve comunque rinunciare alla località: ciò che accade in un luogo può dipendere istantaneamente da ciò che avviene altrove. Questa violazione della località rende la teoria difficile da conciliare con la relatività, ma offre almeno una descrizione ontologicamente chiara. Va notato che, sebbene le previsioni di questa interpretazione, di questo approccio, coincidano ESATTAMENTE con quelle della teoria standard, l’ontologia sottostante è completamente diversa. Come credo di aver già detto, la cosa si ripete esattamente così per ogni altra interpretazione di cui parlemo e ciò rende la possibilità di decidere quale sia quella esatta per via sperimentale piuttosto remota. Il che, verrebbe da pensare, rende assai poco scientifiche un po’ tutte le interpretazione.

Una variante della teoria dell’onda pilota di de Broglie-Bohm è stata proposta da Jean-Pierre Vigier ed è nota come interpretazione Bohm-Vigier o interpretazione stocastica. In questo approccio, si conserva il quadro deterministico e realistico della meccanica bohmiana, ma si introduce una componente dinamica ulteriore: si ipotizza che le particelle quantistiche siano soggette a fluttuazioni del vuoto, cioè a movimenti casuali indotti da una sorta di “rumore di fondo” del vuoto quantistico. Questo meccanismo permetterebbe di spiegare l’apparente indeterminismo delle osservazioni quantistiche, senza rinunciare a un’ontologia realista. È un tentativo di conciliare la natura probabilistica delle misure con un sottofondo deterministico perturbato da processi stocastici a livello microscopico. Interessante ma non molto popolare e risuona con la seducente idea delle ribollenti energie del vuoto, di cui magari parleremo un’altra volta.

Vabbè, prima di passare oltre mi corre l’obbligo qui di citare un’altra visione realista, oggi assai poco seguita: è quella originaria dello stesso Schrödinger. Nella sua prima formulazione, Schrödinger pensava che l’onda fosse un oggetto fisico, una sorta di nube reale che descriveva il sistema quantistico. Questa posizione fu poi abbandonata, soprattutto dopo il confronto con il concetto di collasso e con le predizioni probabilistiche e non mi pare che oggi ci siano grandi epigoni di questa visione.

Parte 7: Interpretazioni a molti mondi, multiversi e molte storie

E veniamo all’interpretazione più pop e conosciuta dal grande pubblico della MQ: l’interpretazione a molti mondi.

Formulata da Hugh Everett negli anni ’50, prende una strada radicale: nega l’esistenza del collasso della funzione d’onda. Tutti i possibili esiti di una misura quantistica si realizzano, ciascuno in un ramo nuovo dell’universo. Il nostro universo, quindi, si “divide” a ogni singola interazione quantistica, dando luogo a una miriade di mondi paralleli, ognuno con la propria storia. Per ogni interazione di ogni fotone che colpisce la mia pelle, il mio occhi, per ogni atomo instabile che decade nel legno della scrivania alla quale sono appoggiato in questo momento, io e la mia scrivania ci moltiplichiamo in un’infinita cascata di versioni alternative, leggerissimamente, impercettibilmente diverse. Ecco a voi il multiverso di Rick e Morty!

Questa interpretazione conserva intatto il formalismo standard della meccanica quantistica e lo interpreta alla lettera. È deterministica, realista, ma ontologicamente impegnativa, per non dire diseconomica: come dicevo postula un numero enorme di universi paralleli, che sbocciano in ogni istante in una ramificazione. Paralleli poi non so: forse meglio dire divergenti. Tuttavia questo approccio, questa interpetazione dall’aspetto elefantino, risolve alquanto elegantemente il problema della misura e non introduce entità aggiuntive rispetto al formalismo della MQ, come invece fa, per dire, l’interpretazione bohmiana.

Una proposta abbastanza simile, ma più prudente sul piano ontologico, è quella delle storie consistenti. In questa dai sì, in questa esegesi, sviluppata da Gell-Mann e Griffiths, l’universo evolve secondo insiemi di storie coerenti, cioè insiemi di eventi compatibili con le regole della meccanica quantistica. Non serve alcun osservatore cosciente, come anche nella interpretazione a molti mondi: ciò che accade è indipendente da chi guarda, ma la descrizione possibile dipende dal contesto logico e statistico in cui ci si colloca. Una interpretazione che cerca un equilibrio tra oggettività e coerenza interna.

Parte 8: Interpretazioni con collasso oggettivo

Alcuni fisici hanno proposto modifiche al formalismo standard per trasformare il collasso da evento epistemico a fenomeno fisico reale. Il modello GRW (Ghirardi-Rimini-Weber) è il più noto. Esso introduce un meccanismo spontaneo e casuale di collasso della funzione d’onda, che avviene con una certa probabilità per ogni particella. Quando le particelle sono molte (come in un oggetto macroscopico), il collasso diventa quasi certo, e questo spiegherebbe l’assenza di sovrapposizione quantistica a livello macroscopico.

Un’altra proposta, avanzata dal mitico Roger Penrose, collega il collasso alla gravità. Secondo lui, la sovrapposizione quantistica diventa instabile quando coinvolge stati spaziali troppo differenti, e la curvatura dello spaziotempo impone una “scelta”. In questo modo, la teoria quantistica si intreccia con la relatività generale, suggerendo una via verso la gravità quantistica.

La proposta di Penrose che collega il collasso della funzione d’onda alla gravità è nota come “Orchestrated Objective Reduction” o Orch-OR. Questa teoria è stata elaborata in collaborazione con lo studioso di neuroscienze Stuart Hameroff perché, secondo i suoi estensori avrebbe dirette implicazioni sulla questione della coscienza. Ma di questo ho parlato nel già citato video sulle menti quantistiche e magari riparleremo in futuro, magari nel video che dedicherò all’articolo di Kuhn di cui ho parlato nel video-prima parte di questa chiacchierata.

Parte 9: Interpretazioni informazionali e relazionali

Qui ci troviamo in un ambito che personalmente trovo piuttosto disturbante e su cui, l’ho già promesso, torneremo in futuro: l’idea sempre più presente che l’informazione abbia una sua realtà fisica e un peso ontologico.

Una interpretazione sempre più influente, infatti, è quella che vede nella funzione d’onda non una realtà fisica, ma una rappresentazione dell’informazione. Il QBism, o Quantum Bayesianism, interpreta la funzione d’onda come l’espressione della credenza soggettiva di un agente. La teoria diventa una guida per l’azione, una mappa per orientarsi nei risultati probabili degli esperimenti. Il punto centrale non è una realtà oggettiva sottostante, ma la coerenza interna delle credenze.

L’interpretazione relazionale, proposta da Carlo Rovelli, porta questa visione a un livello ancora più profondo. In essa, lo stato quantistico non esiste in assoluto, ma solo in relazione a un altro sistema. Non c’è una descrizione unica e universale della realtà: tutto ciò che si può dire su un sistema dipende dal punto di vista di un altro sistema. È un approccio che dissolve molte delle dicotomie tradizionali tra soggetto e oggetto e affronta la questione del collasso della funzione d’onda in una chiave che risuona in qualche modo l’dea relativistica, della relazione tra sistemi di riferimento. Nell’interpretazione relazionale di Rovelli, infatti, il collasso non è un evento fisico assoluto, ma un cambiamento relazionale di informazione tra due sistemi. In altre parole, la funzione d’onda collassa solo in relazione a un osservatore o a un altro sistema con cui si interagisce. Per un terzo sistema, quella stessa funzione d’onda potrebbe non essere collassata. Non esiste quindi un collasso universale, ma tanti collassi quanti sono i punti di vista: ciò che è reale è sempre relativo a una particolare interazione. Questo dissolve la necessità di un meccanismo fisico oggettivo del collasso e sposta l’attenzione sul modo in cui le informazioni si strutturano nel processo di misura. Certamente è una prospettiva con il merito di avere un discreto fascino e Rovelli è molto agguerrito nel portarla avanti e mi preme puntualizzare che essa non nega la realtà, ma ne sottolinea la relazionalità, fra sistemi, il che è molto diverso dal mero soggettivismo.

E, come ti sbagli, anche questa interpretazione ha dato origine a una relativa teoria della coscienza rovelliana. Ne riparleremo!

Parte 10: Interpretazioni idealiste e spiritualiste

Tra le interpretazioni della meccanica quantistica, un posto particolare è occupato da quelle che potremmo definire “idealiste” o “spiritualiste”. Sono prospettive che, in varia misura, assegnano alla coscienza, alla mente o addirittura a una realtà spirituale un ruolo centrale nel determinare gli eventi quantistici. Come ho accennato è l’interpretazione di Cophenagen ad aver lasciato aperta la porta a queste idee ed è sempre per questo che esiste chi fa confusione tra la proposta classica e le strane storie di cui vi vado a parlare.

Ho accennato al fatto che il vecchio, caro libro il Cantico dei quanti, rileggendolo oggi, sembra davvero avere un approccio strano, perché poneva l’accento del dibattito tra due prospettive quantistiche: quella idealista e quella realista. Quella cioè che presuppone un ruolo della coscienza nel collasso della funzione d’onda e quella che ritiene tale collasso legato semplicemente alle interazioni tra oggetti fisici. Beh, abbiamo già visto che oggi il dibattito è assai più ricco di proposte e le più “idealiste” delle interpretazioni non sono forse oggi più tanto rilevanti, a livello di dibattito, come in quel periodo, ma sono inevitabilmente sempre presenti. Ora, cerco di affrontare sempre l’analisi delle idee in modo equanime, ma chi mi conosce sa che non ho nessuna simpatia, anzi, nessuna tolleranza per qualsiasi forma manifesta o nascosta di idealismo. Lo dico giusto per far capire che qui faccio un po’ uno sforzo, per rimanere neutrale.

La più nota di queste teorie pseudo-mistiche è certamente l’interpretazione proposta da John von Neumann e poi sostenuta da Eugene Wigner, due grandi della fisica e due geni indiscussi, intendiamoci, secondo cui il collasso della funzione d’onda avviene nel momento in cui un sistema cosciente prende coscienza del risultato. In questa visione, la coscienza è ciò che completa l’atto di misura. Wigner sostiene esplicitamente che è la coscienza a causare il collasso della funzione d’onda, portando molti a leggere nella sua interpretazione un ritorno, più o meno consapevole, a un’idea idealistica della realtà. Nell’articolo “Remarks on the Mind-Body Question” del 1961, scrive: “It was not possible to formulate the laws of quantum mechanics in a fully consistent way without reference to the consciousness.” ovvero “Non era possibile formulare le leggi della meccanica quantistica in modo completamente coerente senza fare riferimento alla coscienza.”

Il che è assai dubbio ma piace a chi ha inclinazioni mistiche e dualiste.

Una formulazione ancora più radicale è stata proposta, più recentemente, da autori come Henry Stapp o Bernardo Kastrup, che sostengono una visione in cui la coscienza non solo causa il collasso, ma è l’elemento fondamentale della realtà stessa: la materia non esiste indipendentemente dalla coscienza, e la meccanica quantistica è la prova di questo fatto. Siamo qui sul terreno del cosiddetto panpsichismo, o del monismo idealista: tutto è coscienza, e la fisica ne è solo una descrizione esterna.

Esistono anche interpretazioni ispirate al pensiero kantiano e husserliano e al costruttivismo epistemologico, come quella sostenuta da Michael Bitbol, secondo cui la teoria quantistica non descrive una realtà indipendente dall’osservatore, ma solo le condizioni strutturali attraverso cui l’osservazione stessa è possibile. In questo senso, non si tratta tanto di spiritualismo, quanto di un ritorno a una filosofia trascendentale, dove il soggetto conoscente ha un ruolo costitutivo.

Infine, una visione minoritaria ma ancora citata è quella che vede nella meccanica quantistica una conferma di concezioni spiritualiste, o addirittura religiose. Alcuni, come Fritjof Capra ne Il Tao della fisica, hanno cercato di accostare la visione quantistica a filosofie orientali, in cui la distinzione tra soggetto e oggetto, tra osservatore e osservato, è sfumata.

In questa prospettiva non posso non citare le molte elucubrazioni di Federico Faggin, su cui molto lungamente ho parlato nel mio video precedente e già citato “Contro Faggin”. Vedetevelo. Queste elocubrazioni sono basate sul lavoro fatto insieme da Faggin e Giacomo Mauro D’Ariano. La teoria si fonda sull’idea che l’informazione abbia un ruolo costitutivo della realtà fisica, superando la distinzione tradizionale tra materia e mente. In particolare, i due autori sviluppano una visione in cui la realtà è fondata su un principio informazionale primordiale, una sorta di proto-realtà in cui l’informazione è più fondamentale delle leggi fisiche stesse. Questa posizione prende il nome di “teoria dell’informazione quantistica fondamentale” e si basa su una rilettura radicale della meccanica quantistica, secondo cui i concetti tradizionali di spazio, tempo e causalità emergono da strutture informazionali sottostanti.

Faggin, in particolare, sostiene che la coscienza sia l’unico accesso diretto alla realtà e che essa non possa essere spiegata né ridotta a fenomeni materiali. Per questo motivo propone, insieme a D’Ariano, una teoria in cui la coscienza stessa è un’entità fondamentale, distinta dalla mente, che funge da interfaccia tra l’informazione primordiale e la nostra esperienza soggettiva. La loro visione assume quindi un tratto marcatamente dualistico, idealista e in alcuni tratti mistico, in netta contrapposizione alla concezione materialista e oggettivista della scienza tradizionale.

La proposta, e questo va detto e ribadito, in onore dei molti interventi critici che mi sono arrivati tra i commenti sotto il video citato, è altamente speculativa, non formulata nei termini operativi di una teoria fisica sperimentabile, e si muove sul confine tra misticismo e scienza, lasciando decisamente perplessi. Tuttavia, come ho detto più volte, ha avuto e sta avendo una certamente eccessiva risonanza nell’ambito della divulgazione e tra coloro che cercano di fondare una nuova ontologia dell’informazione e della coscienza.

Tutte queste interpretazioni non sono, direi ovviamente, al centro del dibattito scientifico, ma pongono interrogativi spesso non banali sulla natura della realtà e sul ruolo dell’osservatore, e hanno avuto un certo impatto nel dibattito pubblico e filosofico, facendo purtroppo spesso appello a tratti irrazionalisti e spirituali, mescolandoli con i curiosi fenomeni di cui la MQ ci parla.

Parte 12: L’interpretazione transazionale

L’interpretazione transazionale della meccanica quantistica è una proposta affascinante e ancora poco nota, sicuramente minoritaria, ma ispirata ai lavori di due giganti della fisica, Wheeler e Feynman, sull’elettrodinamica quantistica a retroazione temporale, e poi sviluppata in modo sistematico dal fisico americano John Cramer negli anni ’80.

Secondo questa interpretazione, gli eventi quantistici si realizzano tramite uno scambio di onde tra emettitore e ricevitore, che coinvolge sia onde che viaggiano avanti nel tempo (offerte) sia onde che viaggiano all’indietro nel tempo (conferme). Il processo di misura si configura dunque come una transazione chiusa, un po’ come in un contratto: il sistema offre un possibile esito, il ricevitore risponde con una conferma, e solo quando l’accordo è stabilito si realizza l’evento. Questo permette di spiegare il collasso della funzione d’onda in modo oggettivo, senza dover invocare la coscienza dell’osservatore.

Una delle forze dell’interpretazione transazionale è che essa preserva la simmetria temporale, cioè la caratteristica del mondo subatomico a non distinguere tra passato e futuro, delle equazioni quantistiche, una caratteristica spesso trascurata nelle interpretazioni convenzionali. Inoltre, consente una descrizione realista dei processi quantistici e fornisce una possibile spiegazione causale del collasso, pur introducendo una visione del tempo molto meno intuitiva.

Cramer sostiene che ogni evento quantistico è il risultato di una “stretta di mano” tra passato e futuro, e in questo senso la realtà quantistica è il risultato di una rete di scambi trans-temporali.

Questa visione si ispira direttamente alla formulazione della QED, l’elettrodinamica quantistica di Feynman, che contempla scambi di segnali sia in avanti che all’indietro nel tempo per spiegare le interazioni elettromagnetiche. L’interpretazione transazionale riprende questa idea di retroazione temporale, estendendola agli eventi quantistici in generale: le onde offerenti e confermative di Cramer richiamano gli avanzatori e ritardatori di Feynman, trasformando l’interazione quantistica in una sorta di contratto temporale a due vie, anziché in un processo a senso unico. È dunque una reinterpretazione ampia e ontologicamente ambiziosa di una intuizione già presente nella QED.

L’interpretazione transazionale è stata riformulata in versioni più moderne e rigorose, e oggi continua ad attirare interesse in una nicchia di fisici e filosofi della scienza che si interrogano sul significato del tempo, della causalità e del collasso della funzione d’onda nella teoria quantistica.

Parte 13: E qualche altra interpretazione

Siamo quasi in fondo, prometto!

Mi sono variamente soffermato su vari interpretazioni della MQ, salvo miei errori, tutte quelle più importanti. Ma oltre alle interpretazioni che abbiamo già esplorato, esistono anche visioni meno note o sviluppate in contesti interdisciplinari, che meritano almeno una rapida menzione. Tra queste troviamo per esempio l’interpretazione retro-causale, che ipotizza che alcuni eventi quantistici possano essere influenzati da condizioni future, in una forma di causalità inversa, in modo in qualche modo analogo ma non sovrapponibile all’interpretazione transazionale. Alcuni fisici, come Huw Price e Ken Wharton, hanno esplorato queste idee cercando di costruire una formulazione temporale simmetrica della meccanica quantistica.

Un’altra proposta affascinante, anche se molto controversa, è l’interpretazione basata sull’anello chiuso (closed time-like curves), sviluppata nel contesto della teoria quantistica dei campi in spazi-tempi curvi, cioè una teoria che cerca di mettere insieme la MQ e gli aspetti relativistici. Anche se più legata alla speculazione relativistica che alla MQ standard, quesat interpretazione suggerisce modi radicalmente nuovi di concepire causa ed effetto.

Un’altra visione che voglio citare, sebbene molto meno popolare, è l’interpretazione modale. Secondo questa prospettiva, la funzione d’onda non descrive direttamente ciò che è reale, ma indica i possibili stati che un sistema può assumere, detti “modi”. Solo uno di questi modi si realizza effettivamente, ma gli altri mantengono una sorta di realtà potenziale. In questo modo si cerca di salvare sia la struttura matematica della meccanica quantistica sia una forma di realismo, senza dover postulare né collassi oggettivi né mondi paralleli. È una via intermedia, più filosofica che fisica, ma che ha suscitato un certo interesse tra i filosofi della scienza.

Un’importante direzione nel dibattito contemporaneo riguarda le cosiddette interpretazioni “epistemiche” della funzione d’onda, tra cui spiccano quelle in stile Spekkens dal nome di Robert Spekkens, che offrono una possibile lettura epistemica della funzione d’onda che non rinuncia alla coerenza matematica del formalismo quantistico. Spekkens ha proposto un modello “giocattolo” in cui molti fenomeni apparentemente quantistici, come l’impossibilità di clonazione e l’indeterminazione, emergono da vincoli sulla conoscenza piuttosto che da proprietà intrinsecamente misteriose dei sistemi fisici. Questo ha riacceso l’interesse per l’idea che la meccanica quantistica possa descrivere limiti della conoscenza piuttosto che una realtà oggettiva, influenzando profondamente la riflessione contemporanea sul significato stesso della teoria quantistica. Queste posizioni sostengono che lo stato quantistico non rappresenta una realtà oggettiva (ontica), ma piuttosto la conoscenza o informazione soggettiva (epistemica) che un agente razionale ha su un sistema. Il modello giocattolo proposto da Robert Spekkens mostra come molti fenomeni apparentemente quantistici possano emergere da limiti epistemici su teorie classiche. Questa visione ha influenzato profondamente il dibattito sulle fondamenta della MQ, dando origine a numerose riflessioni sui confini tra conoscenza e realtà, ma è anche stata fortemente criticata da chi sostiene che gli esperimenti (come i teoremi PBR) escluderebbero definitivamente interpretazioni puramente epistemiche. In ogni caso, le Spekkens-style interpretations rappresentano un punto di snodo potenzialmente imporatante tra filosofia della scienza e teoria dell’informazione quantistica.

Infine, ci sono approcci che si ispirano a modelli computazionali o logici, come le interpretazioni topos-theoretiche o quelle basate sulla teoria delle categorie, che cercano di riformulare le basi logiche della fisica quantistica usando strumenti della matematica astratta. Non sono ancora entrate nel dibattito dei grandi, ma rappresentano un’interessante frontiera tra fisica teorica e filosofia della matematica.

Parte 14: Ma perché tante interpretazioni?!

È quasi impossibile fornire un numero, dire quante sono le diverse interpretazioni della MQ. Quello che è certo è che sono molte, qualcuno dice che le principali siano più di 17, ma è difficile, perché, come capita per la coscienza, a quanto pare ognuno ha una sua versione personale e quindi le prospettive si moltiplicano.

Krizek, in “The Conceptions of Reality in the Interpretations of Quantum Mechanics: A Journey from Aristotle’s Principles to Einstein’s Dreams of a Unified Theory”, ovvero “Le concezioni della realtà nelle interpretazioni della meccanica quantistica: un viaggio dai principi di Aristotele ai sogni di Einstein di una teoria unificata”, sostiene che la molteplicità delle interpretazioni nasce dal fatto che la teoria non è esplicita su alcuni punti fondamentali. Che ruolo ha l’osservatore? Cos’è davvero la funzione d’onda? Il collasso è reale? La località è salvabile? La teoria è completa? Come possiamo interpretare la complementarietà e la dualità onda-particella?

Ogni interpretazione cerca di rispondere a queste domande in modo coerente, ma non esiste ancora una risposta condivisa.

Come scrive Mermin con ironia: “Nuove interpretazioni emergono ogni anno. Nessuna scompare mai” nel suo articolo “What’s Wrong with this Pillow?”, “Cosa non va in questo cuscino?”.

Beh, questo lo possiamo dire tranquillamente anche di ogni teoria campata in aria, mi pare. Per fare un esempio a caso, di ogni teoria della coscienza.

Questo comunque è il segno che qualcosa di fondamentale ci sfugge, ma anche che la teoria è viva, oggetto di un dibattito fertile.

Ma il vero problema delle interpretazioni della MQ risiede nella loro non falsificabilità, come ho già detto. In linea generale tutte fanno previsioni identiche, dunque è impossibile, almeno allo stato delle cose, selezionarle tutte e salvarne una sola. Non esistono esperimenti specifici che possano confermare o confutare direttamente nessuna particolare interpretazione della meccanica quantistica, poiché sono tutte empiricamente equivalenti all’interpretazione di Copenaghen.

In altre parole, prevedono gli stessi risultati sperimentali e dunque, verrebbe da dire, sono esercizi di carattere filosofico e metafisico, non scientifico. Per questo alla stragrande maggioranza dei fisici interessano poco o niente. Ma c’è sempre la possibilità che questo possa cambiare.

Parte 15: Verso l’unificazione?

Una delle grandi speranze che ci accompagna e ci frustra da più di un secolo, ma, insomma, fin dai tempi di Talete, a ben guardare, è che una teoria più fondamentale, una cosiddetta teoria del tutto, possa dare un giorno un senso unificato a tutto questo. Una teoria che metta insieme meccanica quantistica e relatività generale, entrambe teorie perfettissime e perfettamente funzionanti, ma ontologicamente incompatibili, almeno secondo una prospettiva monista, e che chiarisca il ruolo della misura, del tempo, della realtà. Alcuni canditati ideali sono una futuribile teoria della gravità quantistica o una formulazione completa, come quella tentata dalla teoria delle stringhe. Per ora però siamo ancora privi di un quadro unificato e abbiamo, non è il caso di lamentarsene troppo, due bellissime e poetiche teorie che si contendono il terreno di gioco chiamato universo, chiamato realtà.

Non posso evitare di aggiungere la mia personale opinione, a questo punto, dove oramai starò quasi sicuramente parlando da solo. Ho ribadito più volta come io abbia la sensazione che ciò che davvero manca sia una teoria unificata dell’emergenza, che giustifichi i fenomeni di transizione di scala che non separano solo il mondo quantistico da quello classico, ma si ripropongono in contuinazione nel nostro universo, dalla formica al formicaio, dalla cellula al capodoglio, dall’automobile all’ingordo. È solo un mio sospetto, ma non potrebbe darsi che il problema non sia interpretare la meccanica quantistica, ma trovare il pezzo che manca, il raccordo teorico che spiegherebbe come la realtà macroscopica emerga, è proprio il caso di dirlo, dal curioso mondo dei quanti?

Ma insomma per ora, la meccanica quantistica resta un territorio enigmatico dove fisica e filosofia si intrecciano profondamente. Come nota il già citato Laudisa, il successo applicativo della teoria non ha spento il dibattito sulla realtà: al contrario, lo ha reso ancora più urgente. Perché funziona così bene, se non sappiamo davvero cosa stiamo descrivendo? Vi ricorda qualcosa?

E con questo abbiamo davvero finito. Ricordandovi di mettere like, di commentare anche con una parola, di iscrivervi e di condividere il video, io intanto vi saluto.

Ciao!

FONTI:

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