Filosofia della mente,  Filosofia della scienza,  Fisica,  Frontiere della scienza,  Meccanica quantistica

I 4 grandi problemi irrisolti della conoscenza umana, il vasto programma dell’umanità

(brogliaccio del video: www.youtube.com/watch?v=k9NkIAf1Gds&list=PL6l3loFVFyZ0K6aVsTlfUmtlJbDvzdNJz

Premessa

Ciao! Oggi parliamo di… beh, è un po’ buffo dirlo: parliamo dei grandi problemi irrisolti della conoscenza umana! Quando ho raccontato dell’idea di questo video, che mi frullava in testa già da qualche tempo, al professor Sandro Nannini, lui ha esclamato ironicamente : “vasto programma!”

Sul momento non ho colto il riferimento, ma poi lui mi ha spiegato: stava citando De Gaule, che così rispondeva, sarcasticamente, a chi gli proponeva di lanciare una campagna per eliminare i cretini o qualche altro piano utopistico e irrealizzabile, sciocco a ben vedere. O almeno così narra la leggenda,

Bene, apprezzo l’osservazione in sé e lo spirito con cui è stata fatta, come sempre apprezzo le mie conversazioni con Sandro, spesso proprio sugli stessi temi che voglio affrontare oggi.  Be’, conversazioni: di solito io ascolto e lui parla, diciamo meglio.

È un’assurdamente vasto programma, sì, ma io comunque mi ci proverò, perché questo è un punto che serve a me per iniziare una riflessione ad alta voce, su un filone di contenuti che da tanto tempo rimando di iniziare ad affrontare: un viaggio attraverso quel curioso confine tra scienza e filosofia, che talvolta sembra sparire ed essere impossibile da ritrovare.

Si tratta, quindi, non di un vasto programma ma più di un modesto tentativo di mettere in fila alcune ENORMI questioni, che mi interessano e su cui poi vorrei in futuro riflettere con voi.

Quindi ecco, parleremo dei 4 problemi irrisolti della conoscenza umana. Intanto che voi lasciate like e vi iscrivete ecco la…

SIGLA!

Introduzione

Dicevamo. Oggi ci mettiamo davanti a una tavola imbandita di domande fondamentali, alcune domande abbastanza nuove, anche se poi non proprio nuovissime, e che sono state sollevate dal progresso scientifico dell’ultimo secolo, altre di lunghissimo corso, che la scienza e la filosofia contemporanea hanno semplicemente ereditato dalla filosofia del passato.

In questo video parleremo quindi di quelli che io considero i 4 problemi più grandi e tuttora misteriosi della conoscenza umana:

1) l’origine della coscienza,

2) il rapporto tra matematica e realtà,

3) il dissidio tra le due teorie del quasi tutto: relatività generale e meccanica quantistica,

e infine, qualcuno storcerà il naso, 4) l’emergenza, il sorgere di sistemi complessi da regole ed elementi semplici.

E mio figlio, quando gliene ho parlato, anche lui mi ha fulminato con una domanda profondissima: “Perché 4?”. E io lì, a dovermi giustificare: in realtà all’inizio erano 6, poi ho contato meglio e sono diventati 5. Poi di nuovo ed eccoci a 4. Così ho smesso di contare, altrimenti rimanevo senza un video da fare. Vedremo insieme tra un poco.

Anche l’ordine in cui li tratterò, nel modo più sintetico possibile, lo prometto, non è casuale, ma derivante dall’idea che ci sia un filo logico che mi condurrà inevitabilmente da uno all’altro

Gli interrogativi intorno a questi argomenti sono profondamente radicati nella nostra cultura e davvero alcuni rimangono tuttora irrisolti fino dal sorgere della filosofia. Questi dilemmi non solo ci pongono davanti ai limiti della nostra conoscenza, ma ci fanno anche riflettere su cosa significhi davvero “comprendere” qualcosa, perché molti di coloro che si occupano dei campi di ricerca di cui questi problemi fanno parte vivono benissimo così, senza porsi troppi problemi sulla presenza di queste domande. Ma farsi domande è la malattia e il mestiere del filosofo, non tanto come figura professionale, piuttosto come inclinazione emotiva e stigma esistenziale.

La nostra residua fiducia nella capacità dell’uomo di risolvere questi misteri si fonda sul fatto che ogni epoca ha avuto i suoi, di misteri e ciò che oggi ci appare ovvio ed acquisito, un tempo sembrava inspiegabile. Questi disvelamenti sono avvenuti perché uomini capaci, testardi e fortunati sono stati tanto cocciuti da guardare le cose con una prospettiva diversa da coloro che li avevano preceduti.

Tuttavia questa è un po’ la fiducia del cappone (tacchino per gli americani) induttivista: se l’uomo gli ha portato il cibo tutti i giorni della sua vita, perché mai il giorno della vigilia di natale – ringraziamento per gli americani – dovrebbe essere diverso?

Fondiamo certamente la nostra fiducia nella possibilità, un giorno, di sciogliere i misteri presenti e futuri basandoci sui precedenti storici, il che non ci dà davvero certezze. Ma d’altra parte non abbiamo altro.

Guardandola in un altro modo, se le risposte a queste questioni ancora sfuggono alla nostra capacità di analisi e interpretazione, e forse lo faranno per molto tempo ancora, è proprio questa continua ricerca a rendere la scienza e, permettetemelo, la filosofia, le avventure affascinanti che sono.

Vediamo dunque i problemi più complessi che oggi sfidano il nostro intelletto.

1. Il mistero della coscienza

UNO! Il mistero della coscienza. Qui si parte da una domanda sconcertante: che cos’è la coscienza?

Sì un po’ sconcertante lo è, ma nemmeno tanto. Quando anticamente ci si domandava cosa fosse la forza di gravità il problema era un po’ di definizione, dato che la cosa veniva formulata, nella fisica aristotelica, in termini di “luogo naturale”. Secondo la fisica antica, gli oggetti tendevano a muoversi verso il loro luogo naturale: la terra e l’acqua verso il basso, l’aria e il fuoco verso l’alto. Dunque anche nello studio di un fenomeno così evidente come la gravità, un tempo abbiamo sofferto, per moltissimo tempo, in realtà, di un problema di “definizione”.

Questa definizione, nel moderno studio della coscienza è forse la questione più spinosa. Definire che cosa innanzitutto sia, la coscienza.

C’è chi pensa che la coscienza sia solo un’illusione, un prodotto del nostro cervello che ci fa credere di avere un “io” coeso. Tra questi il Daniel Dennett, secondo cui la coscienza è una sorta di “narrazione” che il cervello costruisce per integrare informazioni e dare un senso al mondo, ma non esiste una singola entità o luogo nel cervello in cui questa “coscienza” risieda.

Altri, invece, ritengono che sia una proprietà fondamentale dell’universo, qualcosa che va oltre la materia. Tra questi vi è Giulio Tononi, che con la sua Teoria dell’Informazione Integrata (IIT) propone che la coscienza sia una proprietà intrinseca di qualsiasi sistema dotato di un certo livello di integrazione dell’informazione.

Un’altra prospettiva è quella del panpsichismo, sostenuta da filosofi come David Chalmers, secondo cui la coscienza è una proprietà diffusa nell’universo e non limitata ai soli esseri viventi con un sistema nervoso complesso.

Insomma, le teorie sulla coscienza sono tantississime e molto confondenti. Si va dalle concezioni più fisicaliste, che tentano di ridurre la coscienza a un epifenomeno dell’attività neurale, a visioni più speculative, che ipotizzano che essa sia una caratteristica fondamentale dell’universo, magari legata all’informazione stessa, fino al ritorno a una visione dualista alla Cartesio, allo spiritualismo o all’idealismo. Non senza dimenticarci le molte teorie di radice “quantistica” di cui ho parlato nel mio video sulle “menti quantistiche”, nato da un intervento di Paavo Pilkannen. Vi lascio il link.

Tutta questa confusione è resa evidente da un recente studio di  Robert Lawrence Kuhn, che nel suo articolo ‘A Landscape of Consciousness’, ha malcontato più di 220 teorie diverse della coscienza, suddivise da lui in 10 filoni principali, ognuno diviso in molte teorie, spesso identificate semplicemente dal nome del filosofo o dello scienziato che le ha proposte: ed ecco quello che potremmo chiamare l’albero, o meglio forse, il cespuglio, delle teorie della coscienza.

Insomma, difficilmente troverete due studiosi della coscienza che la pensino esattamente nello stesso modo e difficilmente ne troverete uno a cui andrà bene l’etichetta che tutti i suoi colleghi gli appiccicherebbero.

Questa enorme varietà di approcci suggerisce che siamo ancora lontani dal raggiungere un consenso condiviso sulla natura della coscienza, sulla sua stessa definizione, appunto e che forse la spiegazione di questo fenomeno che, ve ne do credito, tutti noi sperimentiamo, potrebbe richiedere una vera e propria rivoluzione nel nostro modo di pensare il rapporto tra mente e realtà.

Ma insomma, perché abbiamo un’esperienza soggettiva del mondo? Il nostro flusso di pensieri, emozioni e sensazioni sembra emergere dal cervello, ma nessuno sa ancora spiegare come. La coscienza non è solo un fenomeno complesso, ma è anche una delle poche cose che possiamo conoscere in modo diretto, in noi stessi, senza poterla però sperimentare direttamente al di fuori di noi. Mentre possiamo dubitare dell’esistenza del mondo esterno, della veridicità delle nostre percezioni o persino della natura della realtà, non possiamo negare il fatto di essere coscienti.

Le neuroscienze continuano intanto ad esplorare il cervello alla ricerca di correlati neurali della coscienza, ma ancora manca una spiegazione che chiarisca in che modo i processi fisici possano dar luogo all’esperienza soggettiva.

Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale ha aggiunto nuovi elementi alla discussione. Anche se le attuali IA non sono certamente coscienti, la loro capacità di simulare singole funzioni della mente umana, come il linguaggio e, questo sembra un po’ il filone in grande sviluppo adesso, la memoria, ci costringe a chiederci: cosa ci rende davvero diversi da loro, in linea di principio?

Questa idea di una coscienza fatta di pezzetti, suggerita in qualche modo sia dall’evoluzione dell’intelligenza artificiale, sia dalle scoperte sulle estreme specializzazioni delle aree del cervello è però ciò che David Chalmers contesta, con la sua idea del “problema difficile”, sostenendo che anche risolvendo uno per uno gli aspetti della cognizione attraverso i mezzi delle neuroscienze, il problema difficile, cioè la natura stessa dell’esperienza soggettiva, i qualia, rimarrebbe.

Secondo Chalmers, anche se riuscissimo a spiegare completamente i meccanismi della cognizione e della percezione attraverso le neuroscienze e l’intelligenza artificiale, rimarrebbe comunque senza risposta la questione fondamentale dell’esperienza soggettiva, dei qualia. Perché mai l’elaborazione di informazioni infatti dovrebbe accompagnarsi a un’esperienza interiore? Questa domanda mette in crisi molte teorie fisicaliste e lascia aperta la possibilità che la coscienza abbia una dimensione ancora ignota, forse legata a principi non ancora scoperti della realtà.

Quando penso a questo argomento, e ultimamente rifletto molto su questo tema, a causa delle mie frequentazioni scientifiche e filosofiche nel gruppo Epistème,  non posso fare a meno di pensare che un aspetto fondamentale da considerare, per inquadrare bene il problema della coscienza è il ruolo dell’evoluzione, altro aspetto caro a Dennett.

Così come gli occhi si sono evoluti più volte in risposta alla presenza della luce, la coscienza deve essere il risultato di un processo di selezione naturale, un vantaggio che è connesso al modo in cui siamo in grado di percepire il mondo esterno come diverso da noi. La percezione visiva, che è emersa indipendentemente in diverse linee evolutive, sviluppando strutture simili agli occhi dei vertebrati odierni in molte specie solo blandamente imparentate tra loro, per rispondere agli stimoli luminosi che conferiva un ovvio vantaggio evolutivo, potrebbe trovare un’analogia nel modo in cui si è evoluta la coscienza, qualunque cosa essa sia.

Infatti analogamente, la coscienza potrebbe essersi sviluppata in vari gradi e forme, più volte, per convergenza evolutiva, attraverso tutto il regno animale, per gli evidenti benefici che essere coscienti di sé e del mondo porta nella capacità di adattamento e di interazione con l’ambiente. Comprendere la coscienza potrebbe quindi richiedere non solo uno studio della neurobiologia, ma anche una prospettiva evolutiva che analizzi come e perché l’esperienza soggettiva possa essersi affermata nel regno animale.

Anil Seth nel suo libro Come il cervello crea la coscienza, sostiene che la nostra esperienza del mondo non è una riproduzione fedele della realtà esterna, ma una costruzione attiva della mente. Le percezioni non sono semplicemente ricevute, ma interpretate in base ai modelli predittivi del cervello. Ad esempio, consideriamo una poltrona: dire che è rossa si riferisce a una caratteristica fisica basata sulla luce che riflette, ma definirla “fuori moda” è un giudizio legato al contesto culturale e alle narrazioni condivise dagli esseri umani. L’essere fuori moda non è una proprietà intrinseca della poltrona, ma un significato che emerge dalle storie che collettivamente costruiamo sulla moda e sul valore degli oggetti nel tempo. Questo mostra come la coscienza non sia solo un riflesso della realtà, ma una continua reinterpretazione del mondo basata sulla nostra esperienza e cultura. Il che non mi sembra molto diverso dalla visione della coscienza come narrazione a posteriori di Dennett, ma lasciamo andare.

Tra le fonti vi lascio tra l’altro una intervista ad Anil Seth fatta da Riccardo Manzotti – Anche lui membro di Epistème e col quale da tanto oramai parliamo di discutere della sua teoria della identità Mente-oggetto, che dobbiamo davvero rompere gli indugi, prima o poi – nel quale si parla tra l’altro proprio del libro di Seth ma anche della coscienza in generale.

Ne approfitto per un breve inciso sulla teoria di Riccardo Manzotti: ciò che più apprezzo nello sforzo di Riccardo è il suo tentativo di rovesciare il tavolo filosofico della discussione, mettendo in dubbio il fondamento di tutto ciò che pensiamo di sapere. Ecco, capisco il suo bisogno di guardare alle basi di un problema che nessuno riesce a risolvere. Il problema di rovesciare la visione collettiva di un problema però è sempre lo stesso: come si arriva a un consenso generale tra gli esperti, che è ciò che in realtà incarna ciò che gli sprovveduti chiamano verità scientifica? Fine inciso.

Un aspetto legato alla coscienza è quello del libero arbitrio. Inizialmente avevo pensato di poter enumerare la questione del libero arbitrio tra i grandi problemi, ma poi ci ho ripensato.

Le neuroscienze suggeriscono che le nostre scelte siano anticipate da attività cerebrali che avvengono prima che ne diventiamo consapevoli. Gli esperimenti di Libet, per esempio, mostrano che un segnale neurale precede la percezione soggettiva di prendere una decisione, sollevando il dubbio che il libero arbitrio sia solo un’illusione. Questo fenomeno deriva in modo abbastanza banale da come è cablato il nostro cervello: i segnali dei nostri sensi arrivano prima alle parti più primitive e interne del nostro encefalo per essere a disposizione della parte “moderna” solo dopo. Quindi prima amigdala, con automatica reazione combatti o fuggi, e solo dopo corteccia, con pianificazione e ragionamento. Va molto bene, quando si sta per essere colpiti da un carico di mattoni che cade dal terzo piano, ve lo assicuro.

Anche alcune ipotesi all’interno della meccanica quantistica suggeriscono che il libero arbitrio potrebbe essere negato dalla struttura fisica dell’universo mentre altre ipotesi, viceversa, ritengono che la natura probabilistica dei fenomeni quantistici possa lasciare spazio a un tipo di libertà che non esisterebbe nel determinismo classico.

Insomma, il libero arbitrio è il succo di una spremuta che forse verrà fuori dal capire la coscienza, forse dall’uscire da alcuni degli aspetti problematici della nostra comprensione del mondo fisico, ma c’è un’ipotesi che su di me esercita un fascino diverso e che si potrebbe applicare alla natura della coscienza ma anche a quella del libero arbitrio, a meno di sorprendenti svolte epistemologiche.

Ma infine, tutta questa confusione, questo disagio generalizzato nelle scienze cognitive, mi ha fatto affezionare a un’altra idea. Recentemente, parlando con Giorgio Vallortigara, nel corso di un evento di cui vi lascio il link, è venuto fuori un sospetto, al quale avevo già pensato in passato ma su cui non mi ero mai davvero soffermato a pensare in modo approfondito. È un sospetto di cui parla, l’ho scoperto poco dopo, anche Anil Seth nel suo ultimo libro, già citato e che vi lascio tra le fonti.

Ed ecco l’idea, modesta ma intrigante: ci sono stati svariati esempi di grandi problemi filosofici e scientifici che hanno impegnato le menti più brillanti della storia, talvolta per secoli, senza che se ne trovasse la soluzione, ma infine, col tempo, sono semplicemente svaniti, sono diventati semplicemente irrilevanti e obsoleti, inutili, senza improvvisi e grandi salti concettuali ma per il solo progresso della nostra conoscenza.

Tra questo genere di ipotesi più che plausibili, fondamentali, poi scomparse nel nulla perché  semplicemente superate dallo sviluppo delle scienze, un ottimo esempio è la “forza vitale”, concetto che un tempo si riteneva necessario per spiegare l’emergere della vita in universo di materia inanimata, e che oggi sappiamo essere solo un’ipotesi superflua. Gli esperimenti di Miller e gli assai più recenti e sorprendenti studi di Ruiz (fonti in descrizione) sono arrivati a mostrare l’inesistenza di un muro tra vivente e non vivente, data l’estrema facilità, ancora più estrema secondo gli studi più recenti, con cui la materia fa il salto.

Quindi la coscienza potrebbe essere semplicemente un problema che sfumerà col progredire delle nostre conoscenze? Non lo so e mi sono attardato troppo su questo primo quarto del nostro percorso, quindi passiamo oltre.


2. La matematica: scoperta o invenzione?

DUE! Veniamo al secondo grande problema: la matematica è una scoperta o un’invenzione?

Nello studio della coscienza i sensi giocano un ruolo cruciale, poiché forniscono al cervello le informazioni necessarie per costruire la nostra esperienza soggettiva del mondo, filtrandole e interpretandole, al netto delle teorie panpsichiste e idealiste più estreme.

C’è però qualcos’altro che fa da intermediario tra noi e il mondo: la matematica.

La matematica è il linguaggio con cui descriviamo e indaghiamo il mondo, in quanto umani, ma tracce di questa abilità, legate tipicamente al contare e al percepire la numerosità, possono essere trovate  tra gli altri primati ma anche in tanti altri taxon. Abilità numeriche sono state dimostrate tra altri mammiferi, pesci, uccelli e instetti, particolarmente gli insetti sociali.

Ma insomma la domanda, la grande questione è: la matematica è qualcosa che scopriamo oppure qualcosa che inventiamo? Entrambe le alternative sembrano portare a conclusioni sconcertanti.

Mettiamo infatti che la matematica sia un’invenzione umana, un processo di costante astrazione dal mero contare, fino a alle geometrie non euclidee e alle algebre astratte. Come si spiega però che attraverso questa pura invenzione della mente umana si creino, per linea deduttiva, gli strumenti che non solo consentono di prevedere gli schemi e i comportamenti del mondo fisico ma che, soprattutto, hanno consentito di prevedere e spiegare fenomeni anche esotici, appartenenti a aspetti dell’universo estranei alla nostra esperienza comune.

Un classico esempio è la precessione del perielio dell’orbita di Mercurio. Qui non posso non vedere un parallelismo metodologico, benché il fenomeno fosse assai più modesto, con il problema della materia oscura: la gravità newtoniana prevedeva che il punto più vicino al sole dell’orbita o perielio di un pianeta – si parla di Mercurio solo perché il fenomeno è più accentuato per il pianeta con l’orbita più vicina al sole – ruotasse lentamente rispetto alle stelle. Il problema era però che quel punto ruotava troppo velocemente, per le previsioni della gravità newtoniana, tanto che si ipotizzava l’esistenza di un altro pianeta, Vulcano, con un’orbita ancora più interna di quella di Mercurio, per spiegare la discrepanza.

Quando non capiamo qualcosa ci viene da sempre spontaneo ipotizzare misteriose entità invisibili, si sa. Ebbene, in quel caso venne fuori che la gravità newtoniana era, non direi sbagliata, ma meglio limitata nelle sue prospettive. Emerse così vittoriosa la relatività generale e con lei la rivoluzione che essa portò nel nostro modo di indagare l’universo. E la relatività generale è figlia di una matematica che era già stata inventata prima che se ne capisse l’uso. E le previsioni della relatività generale sono figlie di quella matematica, nata come esercizio intellettuale, diventata poi strumento di indagine dell’universo. Questo fenomeno si è ripetuto svariate volte, nella storia della fisica.

Quindi, se la matematica è invenzione, come è possibile che una creazione della mente umana, quindi quasi al pari di un linguaggio naturale, ma derivante dalla generalizzazione delle numerosità percepite da tutti gli animali e dal procedere per astrazioni dalle forme trasmesse dai nostri sensi tramite, un processo che noi definiamo logico-deduttivo, abbiano potuto forgiare uno strumento in grado di allungare i propri tentacoli fino ad analizzare le profondità dello spazio e della realtà dei quanti?

Fin qui mi seguite? No, allora scrivete “AIUTO!” nei commenti. Viceversa scrivete “AVANTI TUTTA!”

E se invece la matematica ha una sua realtà indipendente, il problema che mi viene spontaneo pormi, anche un po’ ingenuo, se volete è: dove è la sede di questa realtà e come può la mente umana indagarla senza farne un’esperienza attraverso i sensi? La risposta platonica è nota: si suppone un regno metafisico ante-litteram dove questi enti avevano la loro realtà perfetta e che il nostro mondo fosse un pallido riflesso, matematica inclusa, di tale regno iperuranio.

Di questa visione platonica ci sono molte versioni. C’è chi sostiene che la matematica sia intessuta nella realtà stessa – qualunque cosa possa voler dire – oppure chi, come “Mad” Max Tegmark, che torna sempre come il prezzemolo in tutte queste questioni, teorizza che l’universo stesso sia in realtà matematico, concretamente derivante dalla matematica. Qualsiasi cosa questo possa voler dire, mi azzarderei a ripetere.

Le variazioni teoriche sono infinite anche per questa seconda grande domanda. Magari le teorie non sono tante, numericamente, quante quelle sulla coscienza, ma dipende sempre quale metodo di computo si sceglie, nella sociologia della scienza.

Non scenderò in dettaglio nemmeno in questi aspetti, per non rendere questo video eccessivamente lungo. Ci torneremo in futuro, perché questi sono temi che mi preme indagare meglio e penso di trovare là fuori altri super nerd come me, che cercano una luce guida, in questo mare tempestoso di teorie reciprocamente incompatibili.

Ah, magari scrivete “FORZA SUPERNERD!” nei commenti, se vi va!

Tutto molto bello. Il dubbio che ritorna dai tempi in cui discutevamo di coscienza ritorna: non è che ci sfugge anche qui qualcosa di fondamentale?

Qualcosa però lo possiamo intanto dire: possiamo senz’altro dire che la matematica così come la vediamo scritta sui libri è un’invenzione umana. È un linguaggio simbolico che segue le leggi della logica. Qualcuno quindi può sostenere, dato che anche l’universo segue le leggi della logica, seguendo sempre gli stessi schemi, in modo ripetitivo ed affidabile, ecco che noi possiamo travasare quegli schemi in formalismo matematico, la logica del reale nella logica… Nella logica umana, sviluppatasi come parte della nostra coscienza, attraverso i sentieri dell’evoluzione. E qui si arriva forse molto vicini a un ragionamento circolare.

La questione è complessa e anche qui ognuno trova una risposta diversa, dato che non abbiamo nessun elemento che ci consenta, qui sì dopo secoli e millenni, di distinguere ciò che è reale da ciò che è immaginario. Ed è per me naturale affrontare questo secondo grande problema dopo quello della coscienza, proprio perché, come dicevo, tra noi e il mondo ci sono prima i sensi e poi c’è la matematica, che ci consente di indagare ciò che i sensi non possono catturare, ma che riteniamo ormai tanto reale quanto ciò che possiamo vedere e sentire.

Quindi è evidente che c’è un altro aspetto della natura della matematica che ricorda il mistero della coscienza: c’è un largo dissenso su cosa la matematica sia, tra i filosofi della matematica. Meno tra i matematici, che non sempre sono interessati alla questione, com’è legittimo. Zitto e calcola! No, quelli sono i fisici. Zitto e dimostra, meglio anche se forse anche un po’ datato, guardando alle più moderne branche matematiche. Ma divago.

Da un lato, la matematica sembra esistere indipendentemente da noi: i numeri primi, ad esempio, esistono a prescindere dal fatto che li studiamo? E cosa vuol dire esistere indipendentemente, per un numero primo? Dall’altro, i modelli matematici sono costruzioni umane, strumenti che creiamo per descrivere e comprendere la realtà.

Eugene Wigner parlava della “irragionevole efficacia della matematica” – link in descrizione -, riferendosi al fatto che la matematica sembra descrivere perfettamente le leggi della natura. Ma è davvero così ovunque? In realtà, appena ci addentriamo nei fenomeni complessi – come il clima, la storia, la sismologia, la sociologia o persino il comportamento di soli tre corpi in interazione gravitazionale – la matematica diventa meno predittiva e pura, e dobbiamo affidarci a simulazioni numeriche più che a sistemi di eleganti equazioni, grazie alla forza bruta del calcolo dei computer, oggi delle intelligenze artificiali, che usano le equazioni ma senza quella eleganza che la matematica predilige.

Forse la matematica è stata incredibilmente efficace per descrivere il mondo semplice della meccanica classica, ma per il caos e la complessità servono nuovi strumenti? Questo significa che la matematica ha dei limiti? Oppure è solo una questione di trovare la giusta astrazione? Alcuni filosofi della scienza suggeriscono che la matematica che conosciamo oggi sia solo una frazione di ciò che potrebbe essere scoperto, e che il nostro modo di intendere i numeri e le equazioni sia solo un riflesso del modo in cui funziona il nostro cervello.

A questo ultimo proposito, come nel caso dell’idea della coscienza come una contemporanea assonanza epistemologica della vecchia “forza vitale”, quindi come più qualcosa da superare che da definire, butto qui un’idea con la quale da tempo mi balocco.

A me pare che possiamo dire che il nostro universo sia un caso particolare e molto limitato di tutti gli universi che la matematica può concepire.

La matematica contemporanea si trova a proprio agio, per esempio, con gli infiniti. Viceversa ogni volta che salta fuori un infinito in fisica possiamo dire che lì c’è un limite della capacità della nostra teoria – sto di nuovo pensando alla relatività generale – di fare predizioni. Ciò spinge alcuni – i finitisti – perfino a sostenere che anche la matematica dovrebbe occuparsi solo delle entità finite.

Voglio cercare di spiegare meglio questa idea della realtà come caso particolare della matematica, perché rischio di essere frainteso. Tutti gli attrezzi matematici che usiamo per indagare la realtà sono casi particolari di gamme di strumenti assai più ampie. Prendiamo ad esempio le molte geometrie non euclidee che si usano per spiegare i fenomeni del mondo fisico: sono solo una piccola parte delle geometrie immaginate dalla matematica. Prendiamo la teoria dei gruppi, branca dell’algebra astratta, che viene usata un po’ ovunque nella fisica moderna.

Ma la realtà fisica, è una delle conseguenze fondamentali della fisica moderna, pare innanzitutto respingere l’infinita divisibilità che abbiamo in quasi tutta la matematica. La realtà sembra avere una granulometria di base, data dalla scala di Planck. Niente può essere concepito avere dimensioni minori della lunghezza di Plank, nessuna temperatura può essere inferiore allo zero assoluto. Dall’altra parte dello spettro delle scale nessuna velocità può essere maggiore di C, la velocità della luce, e nessuna massa di una particella carica può essere maggiore della massa di Planck.

Questo per quanto riguarda spazio ed energia. Ma anche il tempo, allo stato delle conoscenze attuali, ha una grana, in quanto l’intervallo più breve concepibile è il cosiddetto tempo di Planck, cioè il tempo che impiega un fotone nel vuoto per percorrere la lunghezza di Planck. Questo sembra fornirci il quanto di tempo, cioè l’intervallo temporale più piccolo possibile.

Ebbene tutto questo sembra dare alla realtà fisica una struttura che ha degli elementi base, sotto ai quali niente può esistere.

Se la realtà è così come descritto, cioè non è concepibile niente sotto la scala di Planck, cosa che si ripercuote su innumerevoli aspetti della nostra concezione della realtà, allora viene un sospetto.

La matematica non soffre di una simile limitazione. Nella matematica è dato per assodato che non esista un numero quantico, elemento base di ogni altro numero. Non esiste una lunghezza indivisibile. Inoltre la matematica appare essere totalmente atemporale.

Come se non bastasse la realtà fisica reagisce male agli infiniti: un mucchio infinito di mele collasserà infatti sotto la pressione della sua stessa gravità molto molto prima di anche solo avvicinarsi all’infinito. È la vecchia battuta: “Cosa sono 8×10^29 mele? Sono una stella!”.

E quindi non potremmo dire che la matematica è più generale della realtà proprio per questo? Avendo la realtà una sua grana di base e delle forti limitazioni dal lato degli infiniti, essa non è altro che un limitato caso particolare di tutte le realtà possibili che la matematica è in grado di interpretare e immaginare. Ciò potrebbe essere un indizio su come sia possibile per la matematica fornirci una rappresentazione coerente e capace di compiere predizioni anche su fenomeni non ancora sperimentati su fenomeni fisici?

Partendo da questo punto di vista mi sembra che forse la distinzione tra matematica inventata e matematica scoperta potrebbe essere anch’esso un problema non tanto da risolvere, ma piuttosto da superare. La realtà non è altro che un caso particolare di tutte le realtà logicamente possibili fino a una realtà probabilmente controfattuale dove spazio e tempo siano infinitamente suddivisibili.

Ci sarebbe molto altro da dire sulla natura della matematica ma, per il momento devo passare oltre e parlare di come la nostra realtà discreta e più o meno facilmente interpretabile attraverso lo strumento matematico ci pone anch’essa dei bei problemi.


3. le due teorie del quasi tutto: Relatività e meccanica quantistica

TRE! Parliamo quindi di come le due teorie del “quasi tutto”, le due teorie più potenti della fisica moderna, e cioè la relatività generale e la meccanica quantistica, non vanno per niente d’accordo tra loro!

In breve.

La relatività generale descrive lo spazio-tempo – mi perdonino gli dei dell’analogia – come una specie di tessuto elastico che si curva sotto l’effetto della massa e dell’energia, creando quell’effetto che noi chiamiamo “forza” di gravità, ma che in questo contesto – ATTENZIONE – non è affatto una forza.

La meccanica quantistica, invece, si occupa del comportamento delle particelle a livello microscopico, dove tutto è discreto, come si diceva prima, e probabilistico, ma soprattutto non locale, il che vuol dire che viola il principio di località, ritenuto fondamentale da tutta la fisica precedente prima di tutto dalla relatività generale.

Queste due teorie funzionano benissimo nel loro ambito, ma mescolarle è un po’ come mescolare acqua ed olio: la gravità quantistica, la teoria che dovrebbe unificarle, ancora non esiste. A complicare il quadro ci sono la materia oscura e l’energia oscura, che costituiscono il 95% dell’universo ma di cui non sappiamo niente, in primis se esistono, trattandosi in prima istanza di aggiunte fatte per far tornare i conti della gravita su scala cosmologica. Vi ricorda qualcosa?

E poi c’è un altro enigma: perché, se il mondo quantistico è probabilistico e non locale, tutto il resto dell’universo, a partire dal nostro apparato di misura dei fenomeni quantistici, è sempre un sistema “classico” e deterministico?

Ci troviamo quindi di fronte a un paradosso?

Da un lato, le due teorie sono incredibilmente efficaci nelle loro rispettive aree di applicazione. Dall’altro, ci dicono cose diverse sulla natura della realtà. È possibile che ci manchi ancora un tassello fondamentale, una nuova teoria capace di spiegare sia la gravità sia la natura delle particelle subatomiche?

Va detto che, ancora una volta, per la maggiori parte dei fisici questo non è affatto un problema. Le teorie funzionano e hanno generato una profonda comprensione del mondo che ci circonda oltre, il che non guasta, aver prodotto buona parte della tecnologia che ci circonda.

C’è però ancora una volta chi ha inclinazioni e pruriti più filosofici e che sente l’attrazione di un’ipotesi, dichiaratamente metafisica o magari, se gli si vuole dare maggior credito, implicata induttivamente dalla storia della scienza: che alla fine del percorso possa esistere una Teoria del Tutto (TOE, theory of everything). Questa idea, questo sospetto, discende dal pensiero greco, che fin dalle origini cercava la spiegazione di tutto attraverso un’unica sostanza (Talete, l’acqua, Anassimandro l’ápeiron, Anassimene l’aria e così via) è quello che chiameremo monismo: il far discendere tutto da un’unica sostanza, da un unico principio.

L’idea delle teorie del tutto discende chiaramente da quel bisogno di unificazione che, in realtà, fin qui ci ha servito bene da guida, portandoci a una visione, per quanto ancora incompleta, che è andata unificando cielo e terra, elettricità e magnetismo, elettromagnetismo e forza nucleare debole e così via. Adesso ci manca di capire cosa avviene nel cuore di un buco nero e nell’universo a grandi scale e i tentativi fatti fin qui sembrano non portare molto lontano.

Prima di andare oltre devo spendere una parola sulla natura del tempo, perché inizialmente, come mi era capitato per il libero arbitrio, avevo pensato di metterlo tra i problemi fondamentali. Ebbene, non lo è, perché probabilmente la comprensione della sua natura ricade nell’ambito del problema dell’unificazione delle nostre teorie fisiche.

Il tempo è comunque qualcosa che ci può dare delle indicazioni, per capire quanto è strano l’universo e per trovare degli indizi sulla natura delle soluzioni che dovremmo trovare. Se osserviamo le equazioni fondamentali della fisica, il tempo non ha, paradossalmente, una direzione preferenziale. In qualche caso addirittura potrebbe essere una grandezza superflua. Eppure, la nostra esperienza del mondo è dominata dall’irreversibilità: il tempo scorre sempre in avanti. Questo rende la situazione un po’ imbarazzante, mi pare.

Carlo Rovelli ha proposto che il tempo sia un fenomeno emergente, derivato dall’entropia e dai limiti della nostra conoscenza. Se il tempo non esiste a livello fondamentale, cosa significa questo per la nostra comprensione della realtà? Potremmo un giorno scoprire che il tempo è solo un’illusione, un effetto collaterale della nostra interazione con l’universo? Non lo sappiamo, ma intanto questo mi dà l’aggancio per passare al nostro quarto problema fondamentale, che in tanti mi contesteranno ma che è quello che a sensazione mi viene spesso da pensare – quando ci penso – potrebbe fornirci la chiave di lettura di racchiudere tutti i nostri “grandi” problemi in uno solo.

4. L’emergenza, miracolo universale

E dunque, infine, QUATTRO!

C’è un filo comune, l’ho detto all’inizio, che a me pare unisca tutti questi problemi: la questione dell’emergenza. In ogni campo della conoscenza, sembra che esista una soglia al di là della quale emergono proprietà nuove e inaspettate, imprevedibili se osservate da livello inferiore dei costituenti stessi di quei sistemi.

I fenomeni emergenti infatti si riferiscono a proprietà che appaiono in sistemi fatti di parti più o meno semplici, ma che non sono riducibili alle proprietà di quelle parti prese singolarmente. Insomma, l’emergenza si manifesta quando, grazie alle interazioni tra le componenti, emergono nuove proprietà a livello superiore, che, lo ripeto, NON sarebbero prevedibili solo osservando il comportamento delle singole parti.

Questo fenomeno è ubiquo e sembra centrale in ogni campo, dalla biologia alla fisica, dalla sociologia alla climatologia.

In questo senso si potrebbe sostenere che:

  • La coscienza emerge dall’attività neurale, ma non sappiamo come.
  • La matematica emerge da un luogo ancora sconosciuto e da lei pare emergere la fisica come la conosciamo.
  • La fisica classica, il nostro mondo deterministico, inclusa la relatività generale, sembra emergere da un sostrato indeterministico, da una fisica quantistica che spiega perfettamente l’infinitamente piccolo ma che non si spinge oltre certe scale di grandezza e di energia.
  • Nell’ambito della fisica classica inoltre assistiamo continuamente al passaggio dal suo modo lineare di affrontare i problemi di base (e.g. gli urti tra particelle teoriche) al bisogno di indagare fenomeni non lineari e complessi, come il clima, i fenomeni biologici e ogni singola cosa che meriti di essere studiata.

La matematica del “miracolo”, mi piacerebbe chiamarla, almeno qui, tra di noi, perché, do ragione ai suoi critici: l’idea dell’emergenza è un nodo inestricato di cui ancora non capiamo bene le radici.

Sembra esserci un po’ ovunque un diaframma, un punto di rottura in cui avviene quella che chiameremo una “transizione di scala”, che separa livelli diversi della realtà e che fa venire in mente la famosa vignetta di Sydney Harris: “Un miracolo avviene qui”. Eccola. Anche questa me l’ha riportata alla mente Giorgio Vallortigara dopo anni, nel già citato ultimo incontro, e proprio per criticare l’approccio emergentista. E quindi adesso la uso per argomentare qualcosa di un po’ diverso.

La vignetta, lo vedete, ironizza sul fatto che in tante scienze si invoca un’ipotesi ad hoc per passare da un ambito “dimostrato” a un altro ambito, collegato, altrettanto “dimostrato”, ma il cui collegamento è ancora oscuro. Quel miracolo esiste davvero e si chiama emergenza e noi non capiamo come funziona!

Nell’ambito delle teoria della coscienza, per esempio, esiste una serie di teorici detti appunto emergentisti, ai quali viene rimproverato proprio questo “miracolo”, nelle loro teorie, cioè una zona oscura, dove avviene qualcosa che le loro teorie necessitano ma che non sanno spiegare. Lo stesso avviene un po’ ovunque, nella scienza contemporanea.

La scienza dell’emergenza è ancora tutta da scrivere ed è fortemente collegata alla matematica del caos e della complessità. In questi anni tali branche della matematica hanno fatto grandi progressi, ma ci manca ancora una teoria unificata dell’emergenza, ammesso che essa possa esistere.

La difficoltà di costruire una simile teoria deriva principalmente dalla diversità che esiste tra i fenomeni emergenti e dalla mancanza di un quadro formale unico. La matematica attuale, che si basa in gran parte sulla linearità, fatica a modellare in modo rigoroso le interazioni non lineari che caratterizzano l’emergenza

Dunque che dite? Non è che questo potenzialmente uno dei nostri grandi problemi irrisolti? E oserei andare anche oltre: non è che forse tutti i nostri problemi irrisolti non sono altro che manifestazioni di una stessa questione miracolosa: la transizione di scala tra un regno e l’altro? L’emergenza della complessità da strati sottostanti non necessariamente più semplici in sé, ma costituenti il sostrato del livello superiore.


Conclusione

E qui mi fermo. In questo video mi sono preso delle libertà che certo giustificano lo scetticismo del professor Nannini, con il quale ho aperto questa troppo lunga introduzione ai grandi problemi della conoscenza ,ma era qualcosa che mi covava in testa da troppo tempo per non cercare di sintetizzarlo in questa forma.

Tutti questi interrogativi possono sembrare ostici, insormontabili o semplicemente insani, ma quello che certamente dimostra tutto questo mio discoro è che c’è ancora tanto da scoprire!

Ma c’è anche un’altra cosa da considerare e sulla quale non mi posso non soffermare. È possibile che alcuni aspetti della realtà siano semplicemente fuori dalla nostra portata cognitiva e che alcune cose che ci sembrano incomprensibili lo siano effettivamente, per noi?

Così come un cane non potrebbe mai comprendere la meccanica quantistica, potrebbe esserci qualcosa che il cervello umano non sarà mai in grado di afferrare? Per ora, mi sento di garantirlo, non c’è nulla che dimostri che esista qualcosa di inconcepibile per noi umani, come, tornando al mio esempio, la meccanica quantistica per il mio cane non è semplicemente incomprensibile, ma direttamente inconcepibile.

Certo, alcune cose potrebbero essere difficili da comprendere, richiedere nuovi strumenti concettuali o persino trasformare il nostro modo di pensare, ma l’idea che esistano limiti assoluti alla nostra comprensione rimane solo un’ipotesi. Io ritengo che tutto ciò che è concepibile sia anche, in linea di principio, comprensibile. E questa è forse la scommessa più affascinante della conoscenza umana.

Un altro aspetto fondamentale della scienza è il concetto di verità scientifica. A differenza di una verità assoluta e immutabile, la verità scientifica è il risultato del consenso della comunità scientifica. Questo consenso non si raggiunge arbitrariamente, ma attraverso un processo rigoroso che parte dalle ipotesi, passa per la verifica sperimentale ripetuta e giunge infine all’accettazione generale nella comunità scientifica. La scienza non è quindi solo un insieme di conoscenze (un corpus), ma anche e soprattutto un metodo di indagine strutturato, in cui ogni nuova scoperta deve essere sottoposta a prove rigorose e a un continuo scrutinio. È proprio questa struttura a renderla lo strumento più affidabile che abbiamo per comprendere il mondo e affrontare le grandi domande della conoscenza umana.

C’è quindi sempre un aspetto antropologico e sociologico nella scienza, che probabilmente è e rimarrà un’avventura senza fine, e ogni risposta che troveremo porterà con sé nuove domande. Inoltre l’educazione scientifica che permetta di apprezzare questa avventura non è più un lusso, ma una necessità per tutti noi e per i nostri figli.

Come diceva Carl Sagan: una società avanzata non può sopravvivere all’ignoranza dei suoi cittadini. Per questo è fondamentale continuare a esplorare, a dubitare e a cercare risposte, cercando al contempo di coinvolgere la parte più ampia possibile della società nella meraviglia e nel fascino di queste domande…

Bene se siete ancora qui siete degli eroi! Magari fate un ultimo sforzo e lasciatemi un commento con scritto “EMERGENZA!”, dai, così so che sono riuscito a tenervi fino all’ultimo. Avevo pensato di suddividere il video in tre o quattro parti, ma in fondo chi se ne frega, dai. Come al solito vi lascio un indice degli argomenti trattati in descrizione e, intanto, vi saluto!

Ciao!

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